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"L'estate che diventammo grandi", alla scoperta del rapporto padre-figlio tra sport e misteri con il nuovo romanzo di Nicola Mucci

In libreria il nuovo lavoro dell'avvocato-scrittore perugino che indaga sul senso di responsabilità e sulla felicità della vita trovata nella cose semplici

Nicola Mucci è avvocato, giornalista, scrittore e genitore. I suoi libri spaziano dal calcio ai libri (due sue grandi passioni) per arrivare alla musica. Nei suoi romanzi passione e desiderio (di diventare grandi calciatori o musicisti affermati, oppure di incontrare l’amore) si intrecciano alla trama quotidiana della vita.

È arrivato da poco in libreria il nuovo romanzo “L’estate che diventammo grandi” e ne abbiamo parlato con l’autore.

Il libro racconta di padri e figli, di educazione, paura, redenzione e di misteri? Parlacene un po', senza spolier però.

"Individuerei tre aree tematiche per parlare di questo mio ultimo lavoro, edito dall'amico Santi Parlagreco per Sarapar Editore. La prima riguarda il rapporto padri-figli, che costituisce la spina dorsale del libro. Si tratta del rapporto tra Enrico e suo figlio Luca, ma anche tra Enrico e suo padre, un brillante avvocato torinese ormai avviato verso la pensione. Per diventare padre, Enrico dovrà imparare a sanare il suo rapporto con quello che a sua volta è il suo di padre. Dovrà riscoprire il valore del dialogo e del perdono, per cominciare una relazione nuova. Solo così, potrà svolgere al meglio la sua funzione di educatore nei confronti del figlio e lo farà utilizzando la grande metafora dello sport. La seconda area tematica è quella dei sogni. Le nuove generazioni rischiano di non avere sogni, schiacciate dalle ansie di noi genitori e da una realtà che sembra troppo opprimente per permettergli di sognare. E invece, nella vita, è fondamentale sognare e bisogna farlo in grande. Ciò che conta non è diventare calciatore o fare l'astronauta, ma la strada che si percorre per arrivarci. Il cammino, insomma, è più importante della mèta. La terza macroarea è quella dello sport, inteso come metafora della vita. Lo sport abitua ad affrontare le sfide, a confrontarsi con i propri limiti e le paure. Lo sport ci chiama a scendere in campo anche quando non abbiamo una chance di vincere. Infilare le scarpette bullonate e provare un dribbling alla Kvaratskhelia, anche se non dovesse riuscirci, significa accettare di giocare la grande partita della vita".

Lo leggiamo nel titolo, ma cosa significa diventare grandi?

"Ti rispondo allo stesso modo di un ragazzo di prima media che, nel corso di un incontro sulla lettura, mi ha detto: significa prendersi delle responsabilità. Ovvero, occuparsi degli altri. Essere responsabile non solo della propria vita, ma anche di quella di chi ci è affidato, di chi ci cammina accanto. Per questo motivo, Enrico cercherà di risolvere il ‘giallo’ in cui è stato involontariamente coinvolto. Per questa ragione, accetterà di partecipare al torneo di calcio in spiaggia padri-figli anche se sa di non avere alcuna possibilità di vittoria. Perché impara a rispondere alle sfide della vita, occupandosi innanzitutto della propria famiglia e non ultimo anche di quel padre con cui non si è mai capito, e neanche veramente parlato prima della loro vacanza all'isola d'Elba".

Nei tuoi libri ci sono sempre personaggi se non proprio sconfitti dalla vita, diciamo non vincenti, pasticcioni, sfortunati, e il riscatto è sempre atteso dal lettore, alla fine c'è questo affrancamento?

"Il riscatto c'è sempre. Ma non è detto che sia come ce l'aspettiamo. La maggior parte delle persone non vive una vita da copertina, di quelle glamour che vogliono farci credere siano quelle a cui tendere. Vive un'esistenza ordinaria, silenziosa, ripetitiva, forse persino banale. Non gioca la finale di Champions, ma la guarda alla tv. Eppure è proprio dentro quella ordinarietà che spesso è nascosta la chiave per ottenere il proprio riscatto, ovvero per essere felici. Bisogna solo andare a cercare quel tesoro che spesso è sotto i nostri occhi, ma che non riusciamo a vedere, perché distratti, e distolti, dalle luci e dalle attrattive di mondi virtuali che spesso sono un'alienazione dalla realtà. Enrico troverà il suo riscatto, anche se illusorio, e realizzerà il suo sogno. Ma il vero riscatto sarà quello di riscoprire suo padre e di diventare a sua volta un padre per il piccolo Luca".

Il calcio è sempre presente nei tuoi romanzi, come mai, passione o è una sorta di specchio della vita?

"Il calcio, cioè lo sport, è una grande passione. Una passione che coltivo sin da quando ero piccolo. Ma rappresenta anche una metafora della vita. Don Bosco diceva che per capire un ragazzo bisognava vederlo giocare. Nel gioco, nello sport in genere, caliamo le maschere e siamo finalmente noi stessi. Torniamo ad essere quei bambini che rincorrevano un pallone nel cortile sotto casa e si preoccupavano solo di divertirsi e di stare insieme ai propri amici. Nello sport s'impara a soffrire, a condividere con gli altri, a rialzarsi dopo una sconfitta, a non arrendersi anche quando le cose - come le partite - non vanno come vorremmo, a gioire per un gol o un canestro. Dei grandi campioni poi bisognerebbe conoscere la vita e non solo gli highlights delle loro carriere. Nel libro, si parla molto del Grande Torino, di una squadra di invincibili che, nell'Italia del dopoguerra, rappresentava l'incarnazione di un sogno. Quella è la fonte d'ispirazione di Enrico prima e del piccolo Luca, poi. Ma non solo per i valori sportivi quanto, soprattutto, per quelli umani. Un grande campione di basket come Le Bron James, ad esempio, lo è non solo per quello che fa sul parquet, ma soprattutto per ciò che fa per i ragazzi della sua città natale, Akron. Ecco a cosa dovrebbe servire lo sport. A diventare grandi e a imparare a prendersi cura della squadra che ci è stata affidata".

Perché c'è uno squalo in copertina?

"Lo squalo non solo rimanda a un piccolo ‘giallo’ presente nel libro, ma, in qualche modo, rappresenta un po' quelle paure e quell'imponderabile della vita che, vorremmo, ma non possiamo controllare. Non si limita a terrorizzare solo i bagnanti dell'immaginaria spiaggia di Burgelli, ma al tempo stesso diventa un'attrazione e un'occasione per incrementare le presenze turistiche della zona. Ciò che ci spaventa, spesso ci attrae anche perché, in qualche modo, rappresenta una sfida. L'essere umano vive di ostacoli da superare, di paure con cui confrontarsi, di mondi da esplorare. Fa parte della nostra natura. Lo squalo è questo: ci ricorda che la vita è mistero e movimento, ma che c'è sempre una partita per cui vale la pena scendere in campo. Anche a costo di ritrovarsi faccia a faccia con un pescecane".

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