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Cronaca

La sanità umbra che salva-vite| In fin di vita per il batterio “mangiacarne” salvato in ospedale. "Grazie a tutti"

Cinquantenne reatino si ferisce alla gamba sinistra e viene contagiato dal “vibrio vulnificus”: è un caso rarissimo, in oltre il 70 per cento degli episodi sopraggiunge la morte. “Lo dico con le lacrime agli occhi, è stato pauroso”. Il racconto e le immagini

“Lo dico con le lacrime agli occhi: è stato un inferno, è stato pauroso. E se sono vivo, lo devo a medici, infermieri e operatori socio sanitari dell’ospedale di Terni”.

A parlare è Nazareno Conti, classe 1974: dallo scorso 20 agosto è ricoverato al Santa Maria. È giunto al pronto soccorso in fin di vita. In un primo momento neanche i medici avevano intuito cosa gli stesse accadendo. “Mi hanno detto di non avere diagnosticato mai un caso del genere”. Una cosa rarissima, forse la prima in Italia, tanto è vero che dall’ospedale è partita immediatamente una segnalazione al ministero della salute per malattia importante e pericolosa. A ridurlo in quelle condizioni è stato un batterio: si chiama “vibrio vulnificus”, noto alle cronache come il batterio “mangiacarne”.

Che cos’è il “vibrio vulnificus”

Si tratta di un batterio della famiglia del colera che normalmente vive nelle acque tropicali del golfo del Messico. La scorsa estate, il Centre for disease control and protection (Cdc) degli Stati Uniti d'America ha diramato una allerta sanitaria in seguito ad almeno cinque decessi che si sarebbero verificati in aree dove normalmente i batteri non vivono. Il virus, infatti, tra luglio e agosto 2023 ha ucciso una persona in Connecticut, una nello Stato di New York, tre nella Carolina del Nord, quindi molto più a nord rispetto a quello che è il suo habitat naturale. Negli Usa, Vibrio produce circa 28mila infezioni ogni anno, aumentate di otto volte fra il 1998 e il 2018. In Italia il batterio è presente ma i casi sono rari, rarissimi. Probabilmente favorito dall’aumento delle temperature, che lo porta a proliferare anche nelle acque del Mediterraneo. Ma non ad oltre duemila metri di altezza, dove presumibilmente è avvenuto il contagio di Nazareno.

La caduta e poi il malore

Un paio di giorni prima del 20 agosto, Nazareno – addetto alla sicurezza che vive a Leonessa, padre di quattro figlie – si trova sul monte Terminillo. “Dopo pranzo – racconta – sono caduto inciampando e mi sono fatto un piccolo taglio al ginocchio della gamba sinistra”. Niente di preoccupante, o almeno così sembra. “Dopo un paio di giorni, la carne ha cominciato a puzzare tremendamente e io ho iniziato a stare malissimo”. Ha la febbre molto alta e così i famigliari decidono di portarlo in ospedale a Terni. “Ricordo la barella del pronto soccorso e poi nient’altro”. Dal pronto soccorso viene trasferito in terapia intensiva e messo in coma farmacologico.

Le operazioni e la convalescenza

I medici decidono di operarlo per cercare di capire cosa gli stesse capitando: viene sottoposto a quattro interventi chirurgici al termine dei quali gli saranno applicati oltre cento punti di sutura, fra esterni e interni. Dalla terapia intensiva passa al reparto di malattie infettive e poi ancora alla medicina d’urgenza. Intanto, l’ospedale procede a una serie di accurate analisi per scoprire che cosa lo abbia ridotto in quello stato. E i risultati confermano che la colpa è del vibrio vulnificus. Non è chiaro come dai mari del sud sia arrivato in cima al Terminillo: fatto sta che a colpire è stato il batterio mangiacarne. Forse, lasciato in quel punto – drammatica coincidenza – con gli escrementi di un animale con i quali, in seguito alla caduta, Nazareno potrebbe essere entrato in contatto.
Allo stupore di un evento così eccezionale segue lo sconcerto per quello che sarebbe potuto accadere: in un caso su cinque, il contagio porta alla morte. E se non sopraggiunge il decesso, altra conseguenza diffusa è quella della necessità di amputare l’arto infettato. Il cinquantenne reatino ha scampato entrambe queste possibilità e rientra in quel cinque per cento di casi in cui, a una convalescenza lunghissima e dolorosa, non seguono altre conseguenze. “Sono ancora ricoverato, ho perso più di venti chili, ma sto bene. E per questo devo ringraziare tutto il personale del pronto soccorso, della terapia intensiva, chirurgia, malattie infettive, la dottoressa Gambacorta, il dottor Macaluso, la dottoressa Atteo, il primario di medicina d’urgenza dottor Barabani, tutto il personale infermieristico, gli oss, sempre disponibili e presenti. E devo ringraziare anche la mia famiglia: mia madre, la mia ex compagna, la mia attuale compagna Miriam, oltre a tutti i cittadini di Leonessa che mi sono stati accanto in questi giorni difficilissimi”.

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