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Perugia in lutto, è morto Giampiero Calzoni: il ricordo dell'Inviato Cittadino

Figura riservata e colta della peruginità. Una persona esemplare per affidabilità, educazione, efficienza

Scompare Giampiero Calzoni, figura riservata e colta della peruginità. Era stato un apprezzato dipendente tecnico del Comune di Perugia.

Una persona esemplare per affidabilità, educazione, efficienza. “Siamo stati colleghi per una trentina d’anni”, ricorda Adriano Piazzoli, noto collezionista del Borgo d’Oro.

“Piero era incaricato di istruire le pratiche delle concessioni edilizie che poi presentava in commissione, sempre con grande chiarezza e autorevolezza”, aggiunge. “Non ha mai risposto a politici di sorta: la sua stella polare era la competenza che non ha bisogno di padrini”.

Si era occupato di lavori pubblici, conosceva alla perfezione la città. Studiava accuratamente le questioni e non parlava mai in modo generico o superficiale.

Una malattia insidiosa gli ha fatto vivere gli ultimi anni con sofferenza. Appena si sentiva meglio, usciva per andare in Centro a fare il pieno di bellezza. E, spesso, ci siamo ritrovati a parlare della città. E della nostra giovinezza, fedeli amici d’un tempo migliore.

Piero (Pierino, per noi che lo conoscevamo fin da ragazzo) amava la natura, le camminate, i viaggi, che affrontava con entusiasmo insieme alla moglie Fausta Magi. Frequentava le mostre d’arte, gli incontri di cultura all’Associazione Porta Santa Susanna, i concerti.

Era colto senza esibizionismi. Chi lo conosceva ne apprezzava la lealtà e la piena discrezione.

Pierino adorava Perugia e la sua lingua. Era capace di approfondimenti personali. Amava la poesia di Claudio Spinelli e si cimentava lui stesso nella scrittura. Mi consegnò, non senza riluttanza, un mannello di versi. Non volle mai pubblicare un libro. Era un tifoso dell’Accademia del Dónca e mi presi cura di inserire alcune sue cose nel volume dell’Officina del Dialetto “Noaltri Perugine” del 2010.

In una poesia, “Nti Giardinetti”, ricordava quando facevamo le “vasche” per il Corso e, ragazzi squattrinati, non potendo andare al bar, ci fermavamo a dissetarci alla fontanella, a “facce n nocerino”.

Rileggendo i sonetti di Ruggero Torelli e di Claudio Spinelli Pierino si chiedeva il perché del nostro carattere chiuso e un po’ musone. Se la prendeva con le “fregature” del Papa, ma soprattutto col nostro essere Etruschi.

In un commento che mi consegnò, scriveva: “Nell’ammirare le possenti mura che ci hanno lasciato, si immagina un popolo che viveva rinserrato dentro la città, sviluppando quindi relazioni quasi esclusivamente con la propria gente. Conseguentemente, un tale modo di vivere ci avrebbe reso, già da allora, schivi verso gli estranei fino ad apparire scontrosi”. Verseggiava: “… Òmi bruschi? / Alor la colpa n sarìa del Papa mica / sarìa de nó che sem’armasti Etruschi!”.

Nella poesia “A la tomba del Faggeto” scriveva: “L’òn chiamato Faggeto, ma n c’è manco n faggio…e adè tli dentro… te par de sta ntón porto”. Mi diceva: “Entrare lì è come fare un balzo indietro nel tempo di più di duemila anni. Constatare che l’immensità della storia umana allontana l’apprensione del nostro breve viver quotidiano”.

Ciao, Pierino. Sei stato la prova vivente di un distico di Spinelli – “Che fortun’avé n dono cussì bello / d’esse poet’e manco nun sapello”.

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