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INVIATO CITTADINO Quella pietra d’inciampo in piazza Michelotti. La sollecitò da anni Franco Venanti

Il pictor optimus che poteva dire ‘io c’ero’ e… io lo volevo

La cerimonia tenuta ieri mattina fa seguito a una sollecitazione che ci risulta partita da Luciana Buseghin.

La posa di quella pietra avrebbe di certo reso felice il nostro Franco che non si stancò di predicare l’apposizione di una lapide in memoriam. Non nel luogo in cui era l’ingresso dell’abitazione (piazza Biordo Michelotti), ma in quello che fu sede della mortale caduta. Ossia Piazza Piccinino, dove piombò, con esiti letali, il corpo della disgraziata donna.

Franco ne parlò. Non solo in colloquiis mecum habitis, ossia “in conversazioni private”, ma pubblicamente: l’ultima volta, vicino a me e all’amico grecista Donato Loscalzo, nella sala delle Adunanze di Palazzo Manzoni. Ne scrisse e ne fece scrivere.

Lo riporta anche nei suoi libri lontani nel tempo.

Ma anche, e pervicacemente, nell’ultimo L’alfabeto, memorie e riflessioni (Futura editore) di cui mi sono occupato come estrema prova di amicizia.

Al capitolo “A proposito degli Ebrei” (p. 61) scrive Franco Venanti: Ricordo che, durante le persecuzioni nazifasciste, la signora ebrea Ada Alfonsi, moglie di un ingegnere della Provincia, spaventata dai rastrellamenti che avvenivano in quel periodo, si gettò in Piazza Piccinino dalla terrazza di un palazzo e si sfracellò sul selciato. Era il 14 dicembre (in realtà il 4, ndr) del 1943.

Il fatto fu commentato anche a bottega del babbo Domenico. Venuto a conoscenza del fatto al negozio di mio padre, mi recai in piazza dove c'era una grande folla con la polizia militare che impediva di avvicinarsi.

Ce ne furono anche altri. Prosegue Venanti: Ma non fu il solo suicidio. Mi raccontò mio padre che anche un suo amico, titolare di un negozio in centro, si era nascosto per parecchio tempo nella soffitta del palazzo nel quale abitava per sfuggire alle persecuzioni. Esasperato dalla prigionia, decise di fare la stessa fine. E scelse il suicidio.

Franco sbagliò il cognome. Ma il caso è quello. Venanti cita Ada Alfonsi, mentre la donna si chiamava in realtà Ada Almansi. La confusione è dovuta all’evidente analogia ed è certamente legata alla somiglianza fra i due termini.

Concludendo, fa piacere prendere atto della circostanza per cui, in qualche modo, un desiderio etico e civile del pictor optimus è stato assecondato. Sebbene post mortem.

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