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Lunedì, 29 Aprile 2024
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Correva l'anno di Marco Saioni | Perugia 1892 – La violenta rapina sul treno. Un vescovo ucciso a martellate

Annibale, ventotto anni, linea slanciata, due baffi da uomo. Nativo di Tuoro, faceva da fabbro a Perugia. Lo chiamavano “terremoto” al lavoro, per l’indole scalciante, da renderlo dinamico e operoso nelle mansioni d’officina, seppure a frequenza alternata. Ultimamente aveva dilatato in modo considerevole i periodi di ozio forsennato, disertando le fucine scintillanti. Ambiva apparire ben oltre le possibilità, sì di quelli che il passo lo fanno sempre più lungo della gamba. Aveva un amore, il ragazzo, travolgente e disperato per una fanciulla di Umbertide. Dicono che Filomena non godesse di buona fama, per via di presunta o reale disinvoltura nei rapporti con l’altro sesso, ma lo ricambiava con passione, certo, contro il parere dei genitori. Proprio non digerivano quel tipo, sul quale gravavano sospetti di vita scombinata, lastricata di espedienti. Insomma, uno che se la tirava ma poi franava negli abissi del donca. L’ostilità della famiglia dovette tuttavia incidere sulla ragazza, tanto da interrompere i contatti con il giovane.

Una vera ossessione per lui quell’assenza prolungata, un silenzio che non sapeva decifrare. Si racconta che un giorno, dopo abbondante pasto, consumato in un ristorante di città, iniziò a spiattellare confidenze alla padrona e agli sconosciuti compagni di tavola. Che fosse per ingenuità o indotte da eclissi etilica di freni inibitori, mostrò a tutti una lettera, letta in pubblico, su esplicito invito, dalla proprietaria del locale. Pure se digiuno di ars retorica, l’autore riuscì a comporre un testo accorato e decentemente argomentato. Erano lamentele per quei quindici giorni di silenzio, esortazioni a ricambiarlo di quell'amore ardentissimo, in nome del quale, nonostante le sue avversioni per la chiesa e i preti in generale, si era ridotto persino a subire il matrimonio religioso. Certo, anche una strategia, tanto per non offrire appigli, utili a frapporre ostacoli alla loro unione. Accusava anche la curia di sabotaggio nell’ottenere i documenti necessari al matrimonio. 

Aggiunse che se le sue cattive condizioni economiche gli avessero precluso le nozze si sarebbe gettato sotto un treno o avrebbe commesso qualche eccesso. Nel suo portafoglio, risorse in agonia, tali ormai da consentire un solo bicchiere di vino, non del migliore. Nell’immediato, debiti da onorare. La notizia, sulle ali del telegrafo, dilagò ovunque. In uno scompartimento del treno, alla stazione di Foligno, fu rinvenuto il corpo, ancora caldo, di Monsignor Federici, vescovo dellacittà. Tornava da un breve periodo di cure termali. Sangue ovunque, il capo infranto da colpi violenti. Qualcuno riscontrò subito l’assenza del portafoglio e di un orologio d’argento. Da qualche tempo Francesco si era messo a girovagare nei pressi delle stazioni ferroviarie, forse in attesa di qualcosa, ma l’ipotesi di farsi stritolare dalle rotaie dovette sfumare. Quella sera notò invece un distinto prelato seduto in prima classe, da solo. 

Fece il biglietto e salì. Attese forse il buio e solo nei pressi di Assisi entrò nello scompartimento riservato. Il vescovo era di robusta struttura e si difese bene, tanto da ferire il rivale, provvisto di martello. Colpi disperati, grida soffocate dal trambusto del treno, le membra presto sciolte del prelato, arrese all’ingiuria del ferro. Le indagini ricostruirono in poche ore le dinamiche del fattaccio, coadiuvati da una serie d’indizi lasciati dall’assassino nel suo scombinato tragitto di fuga. Egli saltò dal treno in corsa atterrando malamente sulla massicciata, da cui il sangue lungo i binari. Proseguì seguendo la strada ferrata, fermandosi al primo casellante, tra Assisi e Spello, che gli chiese conto delle ferite. Un’aggressione rispose. Arrivò di mattina a Ponte San Giovanni dove, nei pressi della , gli fu offerto aiuto. Durante il tragitto verso la farmacia mostrò all’accompagnatore un portafoglio, un orologio e persino biglietti da visita sottratti alla vittima. Frattanto si era diffusa la notizia dell’omicidio e Annibale che doveva aver studiato da sospettato, fu riconosciuto e arrestato alla stazione di Ellera.

Ci fu chi soffiò sul fuoco per buttarla in politica. L’omicidio avrebbe tratto origine dal diffuso clima di feroce anticlericalismo, ma la tesi non attecchì. Il processo lampo fu celebrato il mese successivo e in due giorni si chiuse con condanna all’ergastolo, ignorando l’attenuante richiesta per vizio parziale di mente. Di certo lo scenario e il protagonista non deponevano per l’architettura di un di un delitto perfetto.

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