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Lunedì, 29 Aprile 2024
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VISTI PER VOI Una tragedia solo americana? Quando è inevitabile arrendersi al fallimento di un’esistenza

Il male di vivere in scena al Mengoni con “Buonanotte, mamma”

L’opera della scrittrice statunitense Marsha Norman, Premio Pulitzer per la drammaturgia nel 1983, presentata a Magione in anteprima nazionale (la Compagnia ha fatto residenza e montato la pièce  proprio al Mengoni).

Marina Confalone e Mariangela d’Abbraccio vestono i ruoli di madre e figlia nel dramma che racconta la lucida determinazione di rinunciare alla vita. Decretandone il sostanziale fallimento.

La scelta di farla finita è illustrata con la trasparente metafora di scendere dal treno alla fermata che si vuole, decidendo di interrompere il viaggio. Sebbene – come dice la madre – uno che ha il coraggio di morire dovrebbe avere anche quello di vivere.

Tutto in una sera. Quando Jessie comunica alla madre Thelma l’intenzione irrevocabile di porre fine ai propri giorni. Non in modo improvvisato ed emotivo, ma in chiave di scelta consapevole, lungamente meditata, raggiunta con determinazione, prevedendo e provvedendo i passi futuri: dal proprio funerale alla cura della casa da lasciare in ordine.

Un estremo atto di sollecitudine se non, forse, un escamotage per scaricarsi la coscienza prima di scaricarsi addosso un colpo di pistola.

Inutile la resistenza della madre con argomenti persuasivi e affettivamente carenti. Aggrappandosi alla speranza di suscitare pietà. Senza riflettere fino in fondo sul cosa, come, dove abbia lei stessa sbagliato. Più d’una volta.

Una decisione, quella di Jessie, ispirata dalla paura di vivere più che da quella di morire. Una scelta che vale come estremo atto di libertà. Di egoismo. Anche.

Si confrontano argomenti e ricerca disperata/disperante delle ragioni di un tracollo affettivo. Errori della madre, del marito che si è dato alla fuga, del figlio inaffidabile e tossico. Il tutto in una prospettiva di crollo integrale della famiglia come compagine affettiva e fallimento come nucleo solidale.

Un dramma della disperazione perfettamente recitato da due mostri sacri del palcoscenico. Due attrici immense che non temono di mettersi in gioco. E che non provano il minimo imbarazzo a misurarsi, quarant'anni dopo, con l’edizione del Piccolo Teatro che vide protagoniste Lina Volonghi e Giulia Lazzarini.

Con un pubblico attento, soggiogato, impietrito. Commosso. In una vicenda che lo chiama in causa. Invocando come muti testimoni il Dolore e la Pietà.

In scena quell’orologio, che scandisce implacabilmente i minuti, segna anche i palpiti del cuore e punteggia lo scorrere delle emozioni. In un teatro assorto e silenzioso.

Aiutando il pubblico a scoprire che il teatro non vuole insegnarci niente. Non potendo, però, limitarsi ad offrire solo uno spettacolo dilettevole, ma dovendo giocoforza lanciare ipotesi di realtà, smuovere cuore e cervello, suggerire l’angosciante ricerca del senso della vita.

O forse, come nel caso di Jessie in “Buonanotte, mamma”, avanzare la possibilità di coglierne il disperante non-senso.

PS. Un rapido colloquio, al termine dello spettacolo, col regista Francesco Tavassi (presentatoci dalla gentile Bianca Maria Ragni), ci disvela un romano, tuderte di persuasa adozione, innamorato del Trasimeno: del che non possiamo che compiacerci. Noi, che non amiamo il gossip, scopriamo trattarsi di un uomo di robusta formazione culturale che condivide con la D’Abbraccio palcoscenico e vita privata. Parlarci, anche se per poco, è stato illuminante per capire la matrice di un lavoro di solida qualità.

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