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Correva l'anno di Marco Saioni | Perugia 1822 - A un cacciatore in attesa dei tordi, una strabiliante scoperta si rivela dal fango

Lo sputò la terra, sconvolta da smottamenti per le esuberanti piogge autunnali. Un luogo non meglio definito, alle pendici di Monte Malbe, vicino a un fontanile e alle sorgenti del Genna. Garrulo e diafano torrente, a quel tempo, rispetto alla cloaca odierna. Un posto buono, tra sentieri scorticati dal vento e il fosso, per attendere il rientro pomeridiano dei tordi. Vincenzo Cherubini, erudito perugino e cacciatore, saggiava tecniche di appostamento, fucile in spalla, già caricato con giusta dose di polvere e piombo. Non sparò, quando una nube di ali scure gli fu a tiro. Lo sguardo incollato sul fondo del fosso, a pochi metri sotto i suoi piedi, svelò una pietra ben tagliata, solcata da righe di scrittura. Capì che era opportuno informarne subito il prof. Vermiglioli, etruscologo e titolare della cattedra di archeologia, fondata nel 1810, la prima in Italia. L’urgenza era motivata anche dal fatto che il reperto giaceva in una proprietà privata.

Ovunque nel mondo è noto come Cippo di Perugia, un blocco compatto di travertino graffiato da linee di parole con tracce di rubricatura. Il manufatto, che contiene una delle più lunghe iscrizioni tuttora conosciute, spodestò “la regina delle iscrizioni etrusche” primato allora detenuto da quella che correva lungo le pareti dell’Ipogeo di San Manno, cripta dell’omonima chiesetta a Ferro di Cavallo. Una forma evocativa, quella del cippo, specialmente per i cinefili che al suo cospetto hanno la stessa reazione. E’ il monolite di “Odissea nello spazio”, pellicola visionaria di Stanley Kubrick. Solo che non rappresenta un simbolo alieno e intorno a lui non si accalcavano ominidi, ma antichi possidenti terrieri. Più precisamente i rappresentanti di due gruppi famigliari, i Velthina, noti a Perugia, e gli Afuna, attestati a Chiusi. 

Gli stessi avevano concordato un testo, sorta di contratto volto a regolare l’uso di una proprietà, dove erano una tomba e una sorgente. Un’opera accurata, da parte del lapicida che incise il lungo testo, concepita per essere infissa nel terreno e sporgere per un metro e mezzo. In pratica, la monumentalizzazione di un patto. La rarità si deve al fatto che la maggior parte dei testi etruschi proviene da ambiti funerari, dove sono presenti solo brevi formule onomastiche per identificare individui della famiglia. E poi c’è l’aura di mistero che aleggia sull’argomento, impulso prorompente per azzardare una serie d’interpretazioni, talune assai bizzarre. Ma la lettura più accreditata tende a confermare il contenuto giuridico. Scarse le notizie sul rinvenimento, ma dalla loro lettura è comunque possibile tratteggiare il profilo e il ruolo dei protagonisti, grazie alle quali l’insigne reperto è potuto rimanere a Perugia, dove costituisce un punto d’eccellenza del Museo archeologico.

“Altro che tordi, che polenta e fringuelli, questa è la più bella caccia che nell’ottobre del 1822 siasi fatta in Europa…” Così scriverà il professor Vermiglioli, folgorato dalla scoperta, ma allarmato da certe voci su alcuni tentativi di acquisto del manufatto. Temeva, il professore, la rapacità dei trafficanti d’arte, dunque si mosse in anticipo, chiamando a raccolta i colleghi dell’Università, le risorse del museo essendo scarse per l’acquisto del prezioso reperto. Due scudi a testa, il doppio per lui, fino a raggiungere la quota necessaria per l’acquisizione e il recupero. Analogamente esercitò la sua influenza presso il Delegato apostolico Mons. Spinola, il quale, infatti, provvederà all’acquisto. Un buon affare, giacché il cippo venne via per otto scudi, stima valutata al ribasso, certamente spudorato, ma utile a corrisponderne la metà dovuta al proprietario del fondo, Castelletti.

D’ora in avanti la fama del “sasso” si accrebbe e di conseguenza, il suo valore economico, anche per effetto della pubblicazione di un saggio del Vermiglioli, stampato due anni dopo la scoperta. Così il proprietario del fondo provò a reclamare di più, ottenendo persino assicurazioni, ma solo quelle. Tentò anche Cherubini, autore della scoperta, rivolgendo richiesta per un adeguato compenso. La legge di allora prevedeva, infatti, una sorta di premio di rinvenimento per lo scopritore, che ammontava alla metà del valore stabilito, ora ben al di sopra degli otto miseri scudi. La risposta fu ovviamente negativa e oltretutto stupita. Che si accontentassero della gratitudine ampiamente espressa dalla comunità scientifica, che diamine. Dove andremo a finire! Gli ingenui protagonisti dell’eccezionale scoperta mostrarono di non aver imparato granché da secoli di governo clericale.

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