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Lunedì, 29 Aprile 2024
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CORREVA L'ANNO di Marco Saioni | 20 giugno 1859 – ore 15.00, la strage è servita

Dopo tre ore di combattimento dagli spalti del Frontone, sotto una pioggia torrenziale, l’aria sapeva di lago e polvere da sparo. Era finita. La generosa resistenza dei perugini travolta dal numero soverchiante dei mercenari

Dopo tre ore di combattimento dagli spalti del Frontone, sotto una pioggia torrenziale, l’aria sapeva di lago e polvere da sparo. Era finita. La generosa resistenza dei perugini travolta dal numero soverchiante dei mercenari. Ancora qualche tiratore, in agguato tra le mura, bersagliava gli assalitori con le residue munizioni. I loro fucili avevano lavorato bene, imponendo gravi perdite. Chi disse duecento, chi la metà. Una ventina, secondo gli svizzeri. Il gioco è vecchio. Di certo non si aspettavano una tale accoglienza e un po’ per rabbia, mettiamoci pure il vino, ma soprattutto per quella promessa di bottino, una volta dilagati in città non ebbero indugi.

Adrenalina pompata dal clamore di mischia e dalle note marziali di una musica, composta per l’occasione. “Melodia dell’assassino” fu definita quella marcia militare inneggiante al sangue del nemico. Si dice che qualche “pontificio gendarme” s’intrise le mani in quello di un volontario a terra, ormai morente.

Cominciarono da San Pietro. All’abate Acquacotta che gli si fece incontro strapparono subito la croce dal collo, ritenendola d’oro. In cantina se la presero con le botti, in larga parte tracannandone il vino. Poi all’assalto di biblioteca, archivio storico e suppellettili di ogni tipo. L’offesa al luogo, oltre che per accanimento di rapina, traeva motivo nel comportamento dei monaci, ritenuti, a ragione, solidali con gli insorti. Li minacciarono a tal punto che alcuni fecero pressione sull’abate perché consegnasse i tre insorti, Mariano Guardabassi, Mariano Sabatini e Matteo Fagioli, lì nascosti. Per prudenza il priore dovette allontanare quei monaci “tanto zelanti del proprio benessere”.

Il mucchio selvaggio imboccò la via del borgo, forse intonando la marcetta. Da dietro le imposte chiuse si pregava per scansare il terrore. Qualche incauto, ritenendosi estraneo, trascurò la prudenza percorrendo la via. Fu il lampo del fucile o lo strazio della baionetta a fermargli il cuore. Nessuna pietà per gli inermi, oltraggiati anche se già moribondi, i cervelli sparsi in terra dopo i colpi forsennati inferti al capo con il calcio del fucile.

Toccò anche ai negozi, aperti a fucilate, e alle case. Uomini, donne, cani di passo, ovunque fu rapina, stupro, massacro. Si fermarono solo di fronte a una lingua straniera. Era quella dell’americano Perkins, ricco villeggiante. Ma gli toccò di riscattare a suon di moneta la propria vita e quella delle sue donne. Grave errore. La soldataglia grossolana ignorava, infatti, il potere dei media ma l’americano c’era avvezzo. Quei fatti finirono in pagina, quella prestigiosa del New York Times. “The Massacre at Perugia. The outrage to Mr. Perkins and his Party”. Un titolo che fece chiasso e strappò un ghigno di soddisfazione a Cavour. Meglio far passare il papa da macellaio che da vittima. Un buon contributo alla causa, dunque, a un prezzo accettabile, solo ventisei trucidati.

Andò bene invece ad Antonio Luschi che insieme al “Pisano” erano diretti al Corso Vannucci, persuasi di dare man forte a qualche sacca residua di resistenza. Non avevano più fucili, magari li avrebbero trovati lassù. Furono intercettati nei pressi del Duomo da quattro svizzeri poco inclini al dialogo ma il “Pisano” li fece riflettere poiché “Luschi era il Professore della casa ove si alloggiano i matti”. Dopo lungo tergiversare furono rilasciati. Luschi si ritirò in casa e non si mosse più. Se lo avessero perquisito, avrebbero trovato in tasca “un mazzo sano di cartucce, nell’altra delle cartucce sciolte e nel panciotto le capsule.”

Esporre la vita era ormai inutile, così Francesco Orsini, insieme al “Paltracca” risolsero di mettersi al sicuro in casa di Annibale Boccanera, in via Bontempi. Li accolsero come fratelli e con ogni premura li spogliarono dei panni inzuppati. Assunsero anche qualche ristoro, non avendo masticato cibo in tutta la giornata, poi si liberarono dei fucili. “Era già vicino l’annottarsi, quando io dissi che bisognava che bene o male tornassi a casa mia, per non tenere in pena il mio vecchio padre”. Prima di partire, Orsini si pose in buon assetto di vestiario, perché non si sospettasse l’appartenenza a quelli che avevano preso parte ai fatti.

Giunto nei pressi di casa, presso il fabbricato del Collegio della Sapienza, si accorse che a passo cadenzato venivano innanzi due carabinieri pontifici. Simulò indifferenza anche se i gendarmi lo squadrarono a lungo in inquietante silenzio. La toletta fatta in casa Boccanera aveva giovato.

Perugia città chiusa. Quando i galli annunciarono l’alba di quel primo giorno d’estate del 1859, qualcuno giaceva ancora sul proprio sangue tra le vie di una città violata. Sotto un cielo illividito, rivoli di fumo tracciavano l’aria e graffiavano in gola.

Nessun forestiero poteva varcare le porte senza lasciapassare. Niente canzoni o simboli che non fossero pontifici. Locandieri e albergatori non si azzardassero a ospitare viandanti.

Il governo militare, presieduto dal colonnello Schmid, subito promosso dal papa a generale di brigata, strinse la città in una morsa repressiva. Arresti in massa e condanne a morte in contumacia per i membri del deposto governo provvisorio. Frattanto era già iniziata la controffensiva mediatica, volta a contenere il danno d’immagine prodotto dalla strage. Storie inventate dai nemici della chiesa, perlopiù dettate alla stampa nemica da “autori faziosi”, si disse. I giornali governativi lavorarono di grancassa, gli atti ufficiali, pure. La responsabilità di quelle morti andava scaricata unicamente sugli insorti, rei di essersi opposti al ripristino del legittimo governo. Impresa ardua però, anche perché l’articolo del New York Times aveva esposto Perugia all’attenzione del mondo intero.

Il lugubre clima imposto dalla censura non impediva tuttavia che le notizie filtrassero, magari appuntate a mano su fogli spiegazzati. Dopo la carneficina di Solferino, la Lombardia non era più in mani straniere. Ovunque tirava aria di libertà. Questo bastava a tenere viva la speranza. Intanto si praticava la resitenza passiva. Niente partecipazione a messe solenni; gesti di disprezzo nei confronti degli ufficiali e milizia; sistematico boicottaggio dei caffè frequentati dagli invasori. E poi nessuna festa da rispettare, solo una lunga colonna di perugini diretta al cimitero per onorare le vittime del venti giugno.

C’era anche chi festeggiava, allestendo nottate con musica, vino e puttane. Erano gli ufficiali di nuova nomina, forse ignari che la caduta degli dei fosse davvero vicina.

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