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Cronaca

IL LIBRO Storia, ricordi ed emozioni del fu Ospedale di Monteluce: con pennellate di umorismo e umanità

Il libro di Renato Palumbo (edito da Volumnia) si avvale di una presentazione del collega e amico Adolfo Puxeddu

Quel libro di Renato Palumbo che racconta l’ospedale di Monteluce, policlinico col ‘reparto di paternità’. Una perfetta sintesi di storia e autobiografia, proposta con la lente d’ingrandimento. Tanti sono i nomi, le situazioni, le fasi, gli organigrammi, che si affollano nella lucidissima memoria dell’autore. Il libro (edito da Volumnia) si avvale di una presentazione del collega e amico Adolfo Puxeddu, che rivive “un nostalgico flashback, in un amarcord felliniano” della storia del Santa Maria della Misericordia e di San Niccolò degli Incurabili. O meglio: “Policlinico XIV Settembre 1860”, tanto per rifarsi alla precisa denominazione originaria. Dalle origini al 2008, quando le attività cliniche si trasferiscono al Polo Unico, lasciando al suo (triste) destino l’Incompiuta della nuova Monteluce. Renato Palumbo declina le tappe della propria vita professionale, con pennellate di umorismo e umanità.

Basti qui ricordare il ricovero del sikh dalla lingua incomprensibile, senza casa e senza cibo, che lo implora di accoglierlo in reparto. E, sempre a proposito di “appropriatezza del ricovero”, quella volta in cui un ometto – che non “si sentiva niente” – chiese (e ottenne) l’ospedalizzazione, perché era rimasto fuori di casa e il fabbro non sarebbe venuto che la mattina seguente a sostituire la serratura. Il consiglio del suo medico: “Va’ in ospedale, fatti fare i controlli e gli esami clinici, e dopodomani torni a casa e trovi la serratura nuova”. E Palumbo, umanamente colpito, ricoverò. Nel libro, anche tappe significative dell’assistenza, come l’istituzione rocambolesca della guardia medica e tante altre storiche conquiste della medicina.

Senza contare che Renato Palumbo ha fondato, negli anni Sessanta, la Scuola di Medicina Nucleare e che fu Maestro e precursore nazionale di questa specialità (ricordo, con riconoscenza, che curò anche la mia povera mamma). C’è, insomma, nel libro tutto il percorso dell’autore: da studente di medicina a giovane assistente di Clinica Medica, a professore universitario di Medicina Nucleare. Ma emergono anche ruoli e passioni, come quella gastronomica, in qualità di socio della Delegazione perugina dell’Accademia Italiana della Cucina.

Tutto fino alla chiusura di Monteluce, col ricordo di quella scritta che una mano anonima vergò col pennarello su muro del corridoio coperto: “Signore, proteggici tutti”. Disperazione o speranza? Certo preghiera. E poi l’ultimo saluto, vedendo “portone di legno massiccio, che per anni era rimasto sempre aperto, chiudersi lentamente, trattenuto dalle mani di molti di coloro che ci avevano vissuto”. Con quel portone si chiude un luogo “dove avevo vissuto per oltre cinquant’anni. Con lui si chiudeva il periodo più importante della mia vita”. Parole semplici, ma profonde, che testimoniano come si possa spendere bene una storia personale che si identifica, in gran parte, con quella della città.
 

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