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Venerdì, 26 Aprile 2024
Cronaca

Vivevano di cocaina grazie ai pusher stipendiati e agli sconti ai clienti "fidelizzati", nei guai la super banda della droga

In trentasei finiscono davanit al giudice: importavano lo stupefacente nascosto nelle scarpe per bambini e lo sotterravano nei boschi per non farlo trovare alle forze dell'ordine o ai gruppi rivali

La droga nascosta in un bosco, oltre 200 dosi vendute a settimana, un giro di almeno 500mila euro di profitti, spacciatori stipendiati con un fisso. Tutti guadagnavano dalla vendita di cocaina. Almeno fino a che non sono finiti nella maglie della giustizia. È questo lo scenario rivelato dall’operazione “Big Rock” condotta dalla Polizia di Perugia su input dell’Antimafia umbra. Trentasei le persone indagate e finite sotto processo a Perugia.

Secondo quanto ricostruito dagli investigatori uno dei capi si era vantato con gli altri albanesi di nascondere nel bosco un quantitativo di droga corrispondente a 500mila euro, salvo poi lamentarsi di avere giornate pesanti non potendosi fermare “un attimo, tutti i giorni al lavoro...entrare e uscire dal bosco …” oppure dovendo formare nuovi spacciatori (“Stai attento al tuo lavoro, e cerca di imparare le cose”).

L’indagine (nata dalle dichiarazioni di una donna sudamericana alla squadra mobile di Perugia, sull’importazione di un certo quantitativo di droga all’interno di una scatola di scarpe per bambini) è riuscita a smantellare un’ importante organizzazione presente sul nostro territorio, un sodalizio creato “al fine di porre una serie indeterminata di delitti di acquisto, detenzione, cessione di cocaina, con predisposizione di autovetture, telefoni cellulari non intestati agli indagati e luoghi (campagne) dove occultare quintali di coca e soldi”. Secondo il gip che aveva disposto gli arresti “ tutti gli indagati traggono il loro sostentamento esclusivamente dal traffico di cocaina e quelli che svolgono un’attività lecita la mantengono solo come ‘copertura’ per mascherare la reale provenienza dei loro redditi”.

L’organizzazione, manteneva sul territorio una “rete capillare” di acquirenti e clienti, consumatori finali, nonché stabili collegamenti con i fornitori dello stupefacente, “funzionali alla operatività dell’organizzazione stessa”; c’era chi svolgeva “il ruolo di promotori e organizzatori”, chi gestiva le spese per garantire la logistica del sodalizio, fino a pagare gli “stipendi” ai pusher (qualcuno “scontento” è andato a lamentarsi), ai rapporti con gli acquirenti abituali e i fornitori, prediligendo chi “fa consegne a domicilio e tariffe concorrenziali” per un “un giro di affari di assoluto rilievo tramite il quale gli indagati conseguono elevati profitti destinati, in buona parte, ad essere reinvestiti in altri acquisti di cocaina per rafforzare sempre di più, nel tempo, la posizione del gruppo sul mercato”. Duemila euro in contanti erano stati dati ad un avvocato che difendeva uno dei pusher più affidabili che era stato arrestato.

Una posizione che aveva portato anche a degli scontri tra clan, con alcuni degli indagati che avrebbero anche preso parte ad una rissa violenta, con tanto di ferimento da arma da taglio di uno dei coinvolti, poi trasportato all’ospedale di Arezzo nel 2014. Il timore per la propria incolumità, con la possibilità che qualche connazionale scoprisse i loro nascondigli ed arrivasse ad ucciderli per impossessarsi della droga era una costante tra i sodali: “Ti colpiscono e ti ammazzano (…) io non ho paura dello Stato, ho paura degli albanesi”. Il gruppo si era anche armato con pistole per ingaggiare “scontri con gruppi rivali” e far pagare “sgarri” ai clienti.

La notte del 25 aprile 2014 nei pressi di un locale notturno di Corciano scoppia una violenta rissa tra albanesi durante la quale il boss, clandestino e destinatario di un provvedimento di espulsione, viene accoltellato al torace. Anziché accompagnarlo al pronto soccorso di Perugia, però, il capo viene portato all’ospedale di Arezzo “per evitare inopportuni interessamenti da parte della polizia”. Ai medici darà un nome falso. Quel ferimento, per la Direzione distrettuale antimafia, sarebbe da ricollegare a un episodio avvenuto quattro giorni prima, quando il boss insieme a due amici aveva aggredito nel parcheggio di un centro commerciale di via Settevalli un connazionale legato ad un gruppo rivale.

Secondo il gip il gruppo si è saputo mostrare molto versatile e “il sodalizio ha mantenuto la sua piena efficienza con il coinvolgimento di altri albanesi andati a sostituire quelli ‘venuti meno’, senza interrompere in alcun modo il traffico illecito. Tramite i suoi referenti in Albania il ‘capo’ è in grado di far venire in Italia, in caso di necessità, nuovi pusher per ampliare l’attività o sostituire quelli non più utilizzabili”.

Ai tossicodipendenti “fidelizzati” o a quelli che acquistavano più di un grammo di droga venivano praticati sconti, “come farebbe il commesso di un negozio”. Mentre droga e denaro vengono sotterrati in campagna. “ Il rinvenimento della cocaina e del denaro occultati ha reso possibile il recupero e il sequestro di svariati chilogrammi di sostanza stupefacente e di 143.200 euro” scrive il gip nell’ordinanza di arresto. Dopo che la Polizia ha recuperato denaro e droga (pacchi da 30, 40 e 50 mila euro avvolti nel cellophane), tra i capi si sospetta di un componente del gruppo: “Quello me lo prendo io, lo lego nel bosco e lo tengo lì per due o tre giorni”.

Gli imputati sono difesi dagli avvocati Franco Libori, Giusy Mazziotta, Cristian Giorni, Daniela Paccoi e Guido Rondoni.

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