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Cronaca

Correva l'anno di Marco Saioni | Perugia 1915 - il campione Memmo “la Gaggia” rifiuta la guerra e trascorre tre anni in reclusione

E' stato acclamato ciclista nei primi anni del Novecento. Vinse tutto quello che c’era da vincere. Impossibile tener dietro al suo passo

“Perché la Gaggia du volte nse frega”. Assunto perentorio ma sorretto da attestate consuetudini. A farne le spese fu un inconsapevole capitano medico del Celio, determinato a mettere in riga il soldato Tibidò Guglielmo, refrattario alla guerra, ma non per codardia. Fu dunque convocato per la visita, quel giorno di novembre del 1915, con l’obiettivo di mettere fine a quella che sembrava, come in effetti era, una simulazione d’infermità. A Roma era stato inviato dopo un episodio, che lo vide protagonista all’ospedale di Santa Giuliana.

Un assalto di fame. Uomo d’appetito poderoso, mostrò di non gradire quella misera “ramaiolata de brodo” scodellata con malagrazia dalla suora. La replica malevola della religiosa, secondo cui era anche troppo per i lavativi come lui, non fu prudente, anche per via di quella “piccola zampata ntle coste” riscossa il giorno prima dal panettiere per analoghi motivi. Così le arrivò dritta in faccia la sbobba bollente, provocando scomposta fuga e grida di aiuto che “pareva na palomba con quel
cappello”. Però quel capitano è uno tosto e ti metterà giudizio, gli fece un commilitone, “o lu ta me o io ta lu” chiuse Memmo.

La pressione arteriosa si rivelò alta. Siamo agitati? Come non esserlo, asserì, poteva stare a caccia e gli toccava perdere tempo con “sti farabutti che voglion la guerra”. Arrivò dunque un bicchiere di bromuro. “No capitano, io nnel pìo, l’ultima volta m’ha guastato lo stomaco e du volte…” A quel punto l’ufficiale ebbe un sussulto con impeto di molla, pugno abbattuto sul tavolo e un ordine urlato “Io te l’impongo”. Intollerabile per lui che aveva “già fatto a schioppettate” in Libia e gli era bastato. No, quei cumuli di ragazzi bruciati col lanciafiamme e dichiarati dispersi ce li aveva ancora negli occhi e nel naso.

Quello che segue lo raccontò così: “Ho preso il bicchiere e con una mazzata che più violenta non potevo gli ho aperto mezza faccia fino a vedere tutti i denti. Colpa del culaccio del bicchiere.” Gli costò tre anni, tra carcere e manicomio. Fosse stato al fronte, era fucilazione. A lui mancavano gli appostamenti alle “civitelle, il posto più bello per tirà” si alzava alle tre poi via con bicicletta e il fucile. La caccia l’aveva appresa da ragazzo, quando accompagnava i personaggi più noti in città, a cui portava i fucili. “Erano Gallenga, il professor Silvestrini e Agostini, quello dei matti”. Non ci sarebbe mai più tornato ad ammazzare cristiani, lo aveva giurato a se stesso.

memmo3-2Era Guglielmo ma gli dicevano Memmo, Memmo la Gaggia, personaggio notissimo all’Elce e in città. Di lui riferiscono spesso le cronache sportive, essendo stato acclamato ciclista nei primi anni del Novecento. Vinse tutto quello che c’era da vincere. Impossibile tener dietro al suo passo. Conduceva la gara sempre in testa, fino al traguardo. A quel tempo i trofei erano d’oro o in moneta sonante, così riuscì ad accantonare un tesoretto. Gli tornò utile durante la reclusione poiché fu in grado di pagarsi una bistecca al giorno. Dieta mono proteica per tre anni alla quale dovette arrendersi anche il colesterolo.

La guerra troncò una carriera che lo avrebbe imposto anche a livello nazionale. Chi lo conobbe, come del resto chi scrive, ricorda ancora i suoi dettagliati, memorabili racconti, in parte impressi in un nastro di audiocassetta. Carattere autenticamente anarchico senza alcuna connotazione politica. Niente lettura o scrittura, ma di mente arguta, dominava il perugino, quello ortodosso, masticato nelle campagne. Dalla modesta catasta di parole sapeva trarre similitudini e motteggi fulminanti. Disposto lo era sì a menar le mani, ma solo se provocato o per spalleggiare il più debole. Non era solito girarsi dall’altra parte difronte a qualche sopruso. Spesso bastava la fierezza di sguardo e le sue misure a far desistere, se no lasciava per morto il rivale. Ebbe per questo il pugno proibito, come riferiva con qualche orgoglio.

Ne seppero qualcosa i due litiganti del borgo, certi Castraberti e Rossi, noti a lui come amici di vecchia data. Gli toccò intervenire al luccichio di una lama. Chiese spiegazioni, suggerendo la soluzione per il torto subito. “Va bene un cazzotto su la canella del naso o la ceppatura de l’orecchio ma n’conviene a cavà ‘l coltello. Posa sto coltello e quello gnente. Allora glie fo na cinta e me da na coltellata sul braccio.” da cui la conseguente riflessione: ma come, io cerco di evitarti un brutto guaio e tu mi accoltelli? E quindi l’azione “Gli ho dato na ciabatta, ha arparlato dopo sei giorni”. Diagnosi ricorrenti negli scontri, misurate in pochi minuti o in giornate. Dipendeva dall’efficacia e potenza del colpo. “a un tenente che m’aveva rotto i coglioni l’ho solo scartato su la fronte” Questo dopo averlo avvertito: “non t’amazzo perché me fe pena” Dormì una mezz’ora. Valutava cose e persone secondo uno schema binario: buono o cattivo. E cattiva era la guerra, la sopraffazione, cattivi lo sfruttamento, la prepotenza. Impossibile tenerlo a guinzaglio. Non ci riuscirono le autorità militari e in tempo di guerra non c’era da scherzarci. Fu dunque chiamato a combattere durante la celebre impresa di Tripoli. Quell’esperienza di pochi mesi segnò anche uno temprato come lui. Ricordava l’orrore, la violenza che solo la guerra sa accendere, come l’episodio feroce del cecchino.

Memmo-3Fece parte di un gruppo accampato in una postazione avanzata. L’ora stimolava l’appetito e c’era da riempire qualche borraccia, poco oltre. Si avviarono, prima uno, poi un altro, un altro ancora. L’assenza parlava. Decisero di cercarli. Dopo un quarto d’ora di cammino avvistarono il cecchino appostato sopra una palma. In terra, vicino al pozzo, i cadaveri dei compagni. Lo circondarono, intimandogli di scendere. “Io bono” rispose. “Chi t’ha detto che sè tristo, scende” fu la replica. Neanche il tempo di poggiare i piedi che gli furono addosso. Il guastatore, uno “terrribile”, cominciò a lavorarlo di coltello offrendo ai compagni le parti macellate. La mano, un braccio, la spalla, fino a che sfumarono grida e respiro. Era guerra, si rammaricava, e lui difendeva casa sua ma non ci potevi fare niente. Quei tre ragazzi gridavano vendetta.

L’odore del sangue lo imparò presto. A dieci anni era già al mattatoio dove si fece le ossa con i maiali. Quattro soldi al giorno, un quartino, un piatto di minestra e una pagnottina. Questo l’ingaggio. C’era da difendersi a zampate però, dai morsi sulle gambe. “Quando strillava uno eran tutti addosso. Io li chiappavo per l'orecchio e l'alzavo, ficcavo l'coltello e quando toccavo il core facevono un barutolo e poi li pelavo co l’acqua bollente.” Fu promosso alla mattanza di buoi, che a volte stordiva prima con un pugno in testa. Macellava una bestia in meno di mezz’ora, agli altri occorreva il triplo del tempo. Fu signore incontrastato del mattatoio dal quale ritagliava qualche bistecca per sè e altre proteine da regalare in giro ai più bisognosi. Trippe, coratelle, zampe, frattaglie. Tagli poco pregiati che neanche i gatti oggi, ma oro per chi stentava la cena. Ricorda anche il pallido corteo di anemici ai quali dispensava bicchieri di sangue ancora caldo. Il nomignolo “la Gaggia” trasse origine da questa sua specifica attività di condivisione alimentare, diciamo fuori ordinanza.

Se ne andò a novant’anni, ormai solo, dopo la morte di Maria, di cui misurava in giorni l’assenza. Il funerale officiato da un commosso don Nazareno, celebre parroco di Elce, che fu prodigo nel ricordare le qualità di un uomo, certamente non praticante, ma intriso di umanità e mai irreligioso.

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