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SCHEGGE di Antonio Carlo Ponti | Sognare nel centenario di Pier Paolo Pasolini

«Da molte notti, ogni notte, sogno un sogno un po’ dolce e un po’ amaro. L’amaro è un tuffo in un mare gelato, circondato da foche indifferenti, il dolce è sulla guancia la carezza di una foglia che ha appena lasciato il ramo». Non so il perché di questo romanticume, so solo il come. Stavo iersera consultando di Pier Paolo Pasolini i due tomi “Tutte le poesie” nei Meridiani Mondadori (Vol. I – pp. CXXXIV-1794 / Vol. II. pp. 2015), precisamente gli epigrammi contenuti in “La religione del mio tempo” del 1961 (I. pp. 997-1078), e in un verso c’era un cenno alla notte, al sonno e al sogno (“Il sogno di una cosa” è il titolo del suo primo romanzo), e a me, era l’una di notte, Cannella se la dormiva accanto ai fogli, m’è venuto di scribacchiare l’incipit di questa ‘scheggia’, il cui Leitmotiv, va da sé, è il più grande intellettuale italiano del Novecento. 

Con un gruppo di amici sto progettando a Città della Pieve una giornata di studio sul Pasolini epigrammista corsaro come introibo al Premio intitolato a Gaio Fratini nel 2023. Ecco la ragione di questo interesse per PPP, un genio. Basterebbe, è un’iperbole, la potenza dei titoli delle raccolte di saggi: “Passione e ideologia”, “Lettere luterane”, “Empirismo eretico” e il più famoso “Scritti corsari”, invettive che apparvero come meteoriti nel salotto buono del giornalismo italico, sul “Corriere della Sera”, chiamatovi dal direttore Piero Ottone. PPP era un eretico, un eresiarca, un anarchico, una coscienza civile, un moralista, un eterodosso, un pacifista, con tutti i limiti che ciò porta con sé, con le contraddizioni laceranti che fanno grande sia la passione sia il mondo delle idee. Perfino i conformismi. Genio geniale, sì, che ha raccontato un secolo, e toccato le e scavato nelle profondità dell’esistere, facendo propria l’espressione di Martin Heidegger secondo cui «la Parola è la casa dell’Essere». 

PPP è stato immenso nella poesia in dialetto, la lingua materna ossia il friulano di sua mamma Susanna, in lingua dantesca, nei romanzi in italiano e in romanesco, come tragediografo, come opinionista principe, come regista cinematografico, come disegnatore, come de- scrittore di viaggi. Un vulcano, un gigante. Perfino la sua morte è stata gloriosa nell’ infamia. Una fine nella violenza cieca e nel mistero, fra i sommi enigmi della nostra storia, che ci ha fatto orfani di ben altre strade e di ben altri obiettivi: l’uccisione delirante e stupida di Aldo Moro, di Vittorio Bachelet, per non parlare delle stragi mafiose, Ustica, e tutti gli altri enigmi su cui sta indagando e vaneggiando Carlo Palermo con punte di veridicità. Nel 1922, il 5 marzo, nacque PPP, a Bologna, dunque ricorre oggi il centenario della nascita, e nelle 10.000 e passa pagine che ci ha lasciato come eredità preziosa, insostituibile, non potevano mancare epigrammi sferzanti e rabbiosi, ironici e satirici, è ovvio, ma purtuttavia umani, indulgenti, cristiani, non per caso da ateo PPP ci ha donato quel capolavoro che è ”Il Vangelo secondo Matteo”, pensato alla Cittadella della Pro Civitate Christiana di Assisi, in una notte in cui trovò sul comodino e lesse una copia del libro sublime. 

Se qui, nella patria di santo Francesco, Giuseppe Tartini sognò il “Trillo del diavolo”, PPP, perseguitato da processi e da gogne, come un delinquente comune, egli sognò Gesù di Nazareth. Ma un giorno scrisse su “Officina” un epigramma cattivo e ingiusto contro il papa Pio XII, e allora un esclusivo antico club di Roma negò l’ingresso come socio a Valentino Bompiani editore della rivista. Così PPP li bollò: «Ai nobili del Circolo della Caccia - Non siete mai esistiti, vecchi pecoroni papalini: / ora un po’ esistete perché un po’ esiste Pasolini».
 

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