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CORREVA L'ANNO di Marco Saioni | Perugia 1909 – L’occhio di San Costanzo tra eros, torcoli e fanciulle in fiore

Sempre imitato e mai raggiunto. Lo slogan rintocca a martello tra le pagine degli annunci pubblicitari a ridosso della ricorrenza. Per San Costanzo, si raccomanda, c’è solo il torcolo della ditta Vitalesta, al puro olio d’oliva. Una festa che aggrega, quella, richiamando folle di ogni ordine sociale da città e campagna. Certo tocca prima arrivarci senza incidenti alla chiesetta suburbana, fuori Porta San Pietro. Ironia del cronista, che interpreta i lamenti unanimi dei perugini sullo stato miserevole delle strade, quasi tutte “convertite in buche e trabocchetti”. Non solo quelle sterrate, no, soprattutto quelle cittadine che dopo ogni pioggia si fanno agguato per passi e ruote. Un castigo di fango inflitto a calzature e abiti, da imbrattare anche la cravatta.

Luminaria solennissima, tuttavia, la sera della vigilia. Un corteo di religiosi e rappresentati dei vari collegi e arti, torce ardenti in mano, scorre placido come rivolo di lava verso la basilica fuori porta. Devozione diffusa per una tradizione secolare che elesse il santo a protettore, anche se tutti i santi lo sono in qualche modo. Magari un rito di radici antiche, legato al bisogno di cacciare l’inverno, riscaldando e purificando la natura con il fuoco, simbolo del sole. Ma ad affiancare la celebrazione religiosa è l’accalcarsi profano di giovinette, l’indomani, al cospetto della statua. Non già le varie virtù miracolistiche attribuite al santo, curriculum che gli valse la nomina a protettore della città insieme ai colleghi Ercolano e Lorenzo, ma a imporsi fu quella curiosa prerogativa, già appartenuta a Cupido. Da allora le misteriose, quanto agognate occhiate avrebbero soppiantato i cuori trafitti dalle frecce del dio pagano.

Nel giorno della festa ogni bottega di Porta San Pietro è tappezzata di torcoli, sorta di grandi occhi spalancati da stregare i passanti. Trattorie disposte all’accoglienza sobillano stomaci al languore. E’ ovunque vivace formicolio di folla con intrighi di carri, carrozze e bancarelle. Quelle accampate sul piazzale della chiesa propongono cumuli di semi salati e frutta secca, talune luccicano, adorne come sono di arance pregiatissime. Poi le damigiane, leste a sturare gole intasate per strage di torcoli. Una cuccagna anche per i forni che soffiano l’odore tiepido e malandrino dell’anice. Comitive con merenda, curiosi vaganti, giovanotti apparecchiati con l’abito buono, avidi di complici sguardi. Si aggirano coppie, lui che infila il torcolo al braccio dell’amata come un anello, sussurrando qualche frase all’orecchio.  Le dimensioni contano, un torcolo imponente è promessa di altrettanto amore. Altri maschi fiutano l’aria carica di eros scrutando le giovani contadine, vogliose anche loro di ammirare ed essere ammirate. Talvolta lo “scorrevole vinello perugino” in combutta con tassi elevati di testosterone induce alla contesa, con esiti riassumibili in qualche coltellata, labbri spaccati, roba così, non c’è santo che tenga. Più misurate le strategie di caccia degli scapoli impenitenti, sempre disposti a storie fugaci.

Sorvegliano ogni fruscio di gonna, guardinghi però nello scansare esploratrici di nozze o professioniste di baci. Madri circospette eludono sguardi rapaci verso figlie da marito, ancora presumibilmente digiune d’amore, requisito essenziale per l’occhiolino benigno. Una fra loro, volendo imprimere con troppo slancio un bacio al simulacro del santo ne provocò il crollo dentro un cassone posto dietro l’altare. Si riebbe in fretta il buon Costanzo, pur lamentando qualche escoriazione alla sacra mitra. L’incidente, dicono fosse causa della mancata strizzata d’occhio verso chiunque per l’intero giorno, da cui il diffuso malumore tra le giovani. Ci pensarono gruppi di studenti, ormoni all’arrembaggio, che con maggiore efficacia seppero supplire alle deluse occhiate. Sguardi incendiari catturarono il cuore di giovinette, quelle sprovviste, per loro fortuna, di vigilanza materna.

Non fu così per la diciannovenne Maria di via Lupattelli, cui la madre rifiutò il permesso di recarsi con le amiche alla festa, forse temendo che qualche Costanzo fosse in agguato con fallaci promesse. Ne nacque un acceso diverbio ma senza esito felice per la ragazza, costretta nella solitudine della cameretta a tormentarsi, pensando alle amiche libere di scambiare sorrisi e occhiate. Al culmine del turbamento si ricordò di quella boccetta con la soluzione di sublimato, un sale di mercurio dell’acido cloridrico, decisamente velenoso, usato come disinfettante per pavimenti e stalle, piuttosto in auge, all’epoca, specialmente tra le donne, qualora persuase di congedarsi dal mondo. Ne sorbì il contenuto ma presto assalita da feroci dolori, cominciò a gridare. Le fu praticata la lavanda che le salvò la vita e rispose con solerte sorriso allo sguardo ammaliante del giovane dottore.

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