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Giovedì, 18 Aprile 2024
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SCHEGGE di Antonio Carlo Ponti | Io culture della panchina - caposaldo della democrazia e socialità - boccio le nuove sedute della Pescaia... ecco perchè

Amo molto le panchine. Fra le sedute mi paiono le più democratiche, e accoglienti. Allietano e fanno i parchi e i giardini accoglienti, fin troppo quando sono casa di poveri cristi senza casa. La panchina è bella, dovrebbe essere soltanto di legno, è funzionale quando è ergonomica, cioè con la giusta angolazione dello schienale che ha a che vedere con la schiena, mai panchine o sedie a 90 gradi, sicuramente qualche ortopedico mi sconfesserà. Le panchine, poi, per me che cammino poco sia per pigrizia irredimibile e ora per qualche disturbo vascolare (spero che Vasco Rossi
abbia gambe migliori delle mie), la panchina è un’oasi, una serie di assi taumaturgiche, un’orgia di quiete, una boa, un approdo, un’ancora, una mano che ti tira su. Io che amo anche il calcio, i miei amori sono numerosi come gli acini di una collana, mi domando che cosa passi nella testa dei panchinari, pronti a entrare in campo ma senza certezze. 

In ispecie il portiere, il ruolo per i matti, che se fai una papera sei bollato, invece se sbagli dieci tiri sei sempre un numero 10, tranne il rigore decisivo ai tiri di rigore. Ho cercato di sedere in panchina il meno possibile, ma puoi giocare da titolare e essere in panchina con te stesso. Succede. Adoro le panchine e l’altro giorno, mancando da un paio di settimane dal parco della Pescaia dove m’illudo di guarire la zampa
destra con quattro-cinque-sei giri intervallati da soste sublimi dove? ma in panchina, trasecolo perché le panchine non solo sono diminuite di numero ma sono nuove, sicuramente lo vedo a occhio sono meno comode, sono arricchite di braccioli di ghisa, sono parodie di panchine, imitazioni, falsi, contraffazioni, plagi. Quasi quasi non mi siedo, penso, ma so che lo farò, il piacere della fermata è superiore all’orgoglio.

Che fine avranno fatto le care vecchie panchine, dove le avranno deportate, esiliate, trasferite, umiliate, vilipese? M’informerò presso gli uffici competenti ma so che non avrò né udienza né soddisfazione. Lo dico per esperienza. Quando una decina orsono asfaltarono via della Pescara, avulsero una utile, generosa, perfin bella panca così vantaggiosa davanti all’edicola di Patrizia e alla fermata del bus. Non paghi, gli uffici competenti, miopi, sordi e senza cuore, e un po’ razzisti, avulsero una seconda panchina sita dentro un giardinetto alberato, con la motivazione che era sosta un poco selvaggia – specie di stranieri – con conseguenti rifiuti (cartacce, bottigliette in plastica, una buccia di banana) tracimanti il minuscolo cestino. 

Invece di sostituirlo con uno più capiente e di segnalarne il ritiro intelligente – peraltro la strada è pulita e il servizio della Gesenu impeccabile – preferirono rubare al luogo la sua ragion d’essere. Nonostante lettere e appelli – prendo atto che non conto una mazza – le panchine di via della Pescara restano un ricordo, un sogno ucciso dalla burocrazia, virus letale come un boa constrictor. Quando vincendo una certa ritrosia e un dolorino al polpaccio mi sedetti schifato su uno di quei sarcofaghi, notai la targhetta, la griffe della ditta costruttrice: «BENITO». Con Totò pensai: «Pòffare. Questo nome non mi è nuovo».

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