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SCHEGGE di Antonio Carlo Ponti | E' giunto il tempo di una donna al Quirinale:

Ho (nessuno è perfetto) un paio di amici molto cari destrorsi. Per loro Giorgia Meloni sarebbe la donna giusta al posto giusto nel momento giusto. Ma sanno che non li posso, per quel che vale, accontentare. Da democristiano indefettibile – perché pentirsi di un ideale perseguito secondo i dettami di Ulpiano: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere: pilatri del diritto? Non sono così superbo da escludere qualche veniale scivolata, ma dico sempre di me che non sono buono ma sic et simpliciter non sono cattivo. A Giorgia Meloni preferisco Rosy Bindi, non foss’altro perché non piaceva – alla pari con Angela Merkel – a Silvio Berlusconi che da gentiluomo d’altri tempi glielo disse in faccia, come se dovessero fare lop dance alle cene eleganti e non governare la cosa pubblica nel pubblico interesse. 

Rosaria (Rosy) Bindi, toscana di Sinalunga è del 1951, l’età giusta. Era accanto al suo maestro Vittorio Bachelet, anni 54, quando il 12 febbraio1980
alle 11,50 Anna Laura Braghetti e Bruno Seghetti assassini delle Brigate rosse gli spararono addosso sette copi di rivoltella nell’atrio di Scienze politiche alla Sapienza (Giampaolo Pansa ci scrisse su “la Repubblica” un articolo memorabile). Rosy vara nel 1978 da Ministra della Sanità il SSN- Servizio sanitario
nazionale (fondato su universalità, uguaglianza, equità) e poi è presidente della Commissione antimafia. Una donna specchiata e una politica competente e non “una di questi qua” come li chiama l’ amico e bravissimo giornalista e scrittore Filippo Ceccarelli i politici votati con 125 suffragi on line. 

Poi ci sarebbero Marta Cartabia, Elsa Fornero, Fabiola Gianotti, Donatella De Cesaree: non mi vengono in mente altri nomi. Se il maschilismo italico dovesse spegnere la candidatura sacrosanta di una donna al comando, infrangendo tabù e cattive centenarie tradizioni, propenderei per Paolo Gentiloni o Paolo Sorrentino, che ha detto che non farà più film, o meglio farà recitare un orango e potrà di lì a poco appendere al chiodo la cinepresa. So bene che non si avvererà il sogno di un cronista che vive e pensa in Umbria, cuore verde d’Italia come inventarono Alberto Provantini e Luciano (Lucio) Manna, grande disegnatore e umorista che l’Umbria sta ricordando in questi giorni. Due cuori che mi sono cari. No, Mario Draghi deve restare dov’è, a caricarsi come un mulo da soma, di quelli che un tempo scalavano le montagne, per portare derrate e farmaci e sogni alla gente, non sempre brava gente, ma persone. 

Deve salvarci e impedire le ruberie. E lo dico in tutta franchezza: se Silvio Berlusconi dovesse fare il suo ingresso al Quirinale dove ‘regnarono’ Sandro Pertini e Carlo Azeglio Campi faccio fagotto, cara Umbria, cara Italia e amate sponde; mi ritiro a Lisbona a sedermi al caffè “A Brasileira” accanto al monumento in bronzo di Fernando Pessoa o ad Atene all’ombra dell’Eretteo. Lì con la mia pensione vivrò da nababbo. Solo che non ne ho il coraggio. Troppi legami mi stringono qui in questa terra di santi poeti navigatori e ora di troppi “questi qua”. Ma il cuore è qui in questo verde francescano (oggidì un po’ sbiadito a dirla tutta).

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