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Schegge di Antonio Carlo Ponti | Mascherine addio? Rifuggo la melma delle di idiozie sesquipedali nella poesia...

Mi rifugio fra le braccia di Eugenio Montale: "Ah l’uomo che se ne va sicuro,... "

È tutto un garrire di mascherine che verranno buttate in terra come mi capita di vedere camminando lemme lemme in strada. En plein air, in open space, la mascherina non più protesi protesa su bocca e naso ma in tasca accanto al pacchetto di fazzoletti di carta. Io, vaccinato con Pfizer 1 e 2 non la tolgo a meno che non abbia umani almeno a 100 metri, a 10 me ne vo sterzando. Non vero niente, ok? Figuriamoci, sono già stufo di scrivere queste litanie in tempore tabis, ho insofferenza per i soloni e le cassandre che come cavallette invadono i campi sterminati del video campo di battaglia di idiozie sesquipedali. Mi rifugio ancora una volta nella soffice nicchia, nel lindo guscio, nel probo nido della poesia. Unica moneta da spendere oggi, bitcoin dello spirito. Avete mai letto gli spam? Giovani ucraine in offerta o accrediti di 123.444 euro sul tuo conto. 

Io questa melma del web non la sopporto più. Mi rifugio fra le braccia di Eugenio Montale che era sì una persona cattiva, ma Erato lo aveva baciato in fronte fin dalla culla. Nei regimi dittatoriali, quando la democrazia è un ricordo e la forza si fa diritto, alla libertà non rimane che alludere, metaforizzare il senso delle cose, e i poeti – di rado ma succede – possono diventare così scomodi che vengono uccisi, come è accaduto a Pablo Neruda, miope cantore di un tiranno sanguinario come Stalin, fatto fuori dai medici di Augusto Pinochet mentre era ricoverato in ospedale. Eugenio Montale non era così nocivo al regime, sembrava un lirico puro, che si occupava di limoni e di meriggi e di ombre, di sarcofaghi e di ossi di seppia. Ma una poesia di 12 versi 11 dei quali in rima è un manifesto di resistenza gandhiana, il gramsciano pessimismo della volontà e ahimè la morte dell’ottimismo dell’intelligenza. 

Mi pare che questo dicano i versi seguenti: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato. // Ah l’uomo che se ne va sicuro, /agli altri ed a se stesso amico, /e l’ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro! // Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, /sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò non siamo, ciò che non vogliamo». Una condizione da suicidio, se non corporale: metafisico e spirituale. Il vuoto. 

Questo vogliono dire i due avverbi di negazione. L’inerzia ontologica. L’accettazione supina. Il potere che anestetizza. Che svuota di senso. Ma poi uno si legge la filastrocca di Adriano Imperatore e si adrenalizza pur fra le ombre della morte: «Animula vagula blandula /Hospes comesque corporis / Quae nunc adibis in loca /Pallidula rigida nudula / Nec ut soles dabis iocos. Piccola anima smarrita e soave, ospite e compagna del corpo, ora stai per entrare in luoghi pallidi duri e nudi, dove non avrai i consueti svaghi». Marguerite Yourcenar conclude così Memorie di Adriano: «Cerchiamo di entrare nella morte a occhi aperti…». E senza mascherina.
(inviata alle 23.20 in redazione e pubblicata oggi alle 16.30)

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