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Correva l'anno... di Marco Saioni | Perugia 1913, storia di Raffaele l'eugubino: dalla miseria nera ai primi furti, fino alla fuga da Ventotene

Di certo era lì per qualche dritta confidenziale, di quelle buone a imbastire il pezzo di nera. Un giornalista in commissariato, d’altronde, qualora non inguaiato di suo, quello faceva ogni tanto. La desolata sala d’attesa, governata dall’ usciere Balducci, prese vita quando un anziano consunto gli si rivolse chiedendo del funzionario. C’era da aspettare, rispose. Lo sconosciuto, faccia patibolare di chi ne ha passate, non si scompose poiché precisò di non avere alcuna fretta. Incuriosito dal personaggio, l’usciere domandò quindi ragione della sua richiesta. Un favore dalla pubblica sicurezza. Questo chiedeva. In particolare che gli fosse concesso ritornare in galera.

A queste parole il cronista avvertì la notizia e gli si fece sotto domandando subito chi fosse. “Mi chiamo Raffaele Pascolini e sono nato a Gubbio una settantina di anni fa”. Una risposta stringata simile, per tono e contenuto, a quelle di certi prigionieri quando dichiaravano al nemico nome cognome e grado, poi null’altro. Sebbene tali premesse non concedessero troppo spazio all’ipotesi di un’intervista, il giornalista, che aveva fiutato l’odore del sangue, impostò la strategia per le domande. Esordì dunque con quella finto compassionevole, tanto per aprire uno spiraglio. “avete sofferto molto”? La risposta, in pieno stile eugubino, fu riportata in corretto italiano nell’insipida formulazione “a voi cosa importa”, ma dovette certamente suonare con altre note.

Fu come il fracasso di una saracinesca che si chiude in faccia. L’intervista era finita prima dell’inizio. Poi successe. Da quella cascata di rughe iniziò a colare un flusso di parole, quasi una confessione. Un narrare di sé, spesso troncato da rantoli e tosse, eppure avvincente come un’avventura di romanzo. Se aveva sofferto? Da quando era nato. La miseria nera, i primi furti, niente di che, solo spiccioli, poi il carcere. Il profumo dell’aria ubriacava quando lasciavi la gabbia ma l’assedio della fame non concedeva tempo. Altri colpi in giro per l’Italia, galera e nessuna possibilità di lavorare. 

Frequentò la lama nelle risse, versando sangue rivale. Altri scontri tra compari di rapina o per fatti di donne. Ancora carcere. Animo indomito e insofferente
alle regole dei ricchi, percorse città, di rado per lavorare, più spesso per ingordigia di conoscenza. Incontrare luoghi sconosciuti e dominare il suo tempo, questo desiderava da che era al mondo e pazienza per qualche prelievo di beni altrui. Mezzo secolo della sua vita fu segnato da reclusioni e orizzonti da conquistare. Tentò anche la Francia, lui, digiuno di lingua. Solite combutte tra sciagurati locali e zuffe per modesti bottini. Dopo l’arresto, varcata la frontiera, stabilirono domicilio coatto a Ventotene, isola remota che lo inebriò di mare e colori. Mesi pacati e una condotta esemplare da mitigare il controllo delle guardie.

L’innata ansia per l’altrove sembrava sopita. Un tempo inerte, rassegnato a sfogliare albe e tramonti, i passi sempre quelli, e l’orizzonte, anche lui troppo immutabile. Il morso inesorabile dell’inquietudine lo travolse ancora, inducendolo a supporre la fuga. Fu una sera, quando il sole calante faceva brace di nubi arcigne. Per lui un pungolo ad osare. Notte di tempesta però e un boato di tuoni ad annunciare le folgori. Lasciato il giaciglio, scivolò nel buio per guadagnare la riva e una barca. Sapeva la rotta, poiché erudito di stelle, e il litorale promesso a se stesso spronava a percorrere il mare. Chiunque avrebbe rinunciato a quel mare in tumulto da sfidare con un guscio di noce, non Raffaele eugubino, fiero artefice della propria sorte. Lottò tutta la notte contro il vento e la collera delle onde, istigato però da un fremito di libertà, mai così potente. Solo l’alba placò la tempesta, consentendo l’approdo ad una sponda sicura.

Un rischio estremo, fece il giornalista, sollevando lo sguardo dagli appunti. Ormai aveva la sua storia e un personaggio da raccontare in tre colonne con titolo ad effetto: “La nostalgia della galera”. Ma se avesse avuto timore di morire, quella era ancora una domanda da fare. “Per uno come me cosa volete che fosse la morte”. Raccontò di giorni con un grappolo d’uva, una crosta di pane, scorze di melone, sempre inseguito da qualcuno, sempre a guardarsi la schiena. Un’esistenza segnata dal callo della fame e i carabinieri in agguato. Per torti inflitti, certamente, ma dopo il primo arresto la via è segnata per sempre. Nessuno ti offre occupazione e per qualunque reato è sempre te che vengono a cercare.

Nessun rimpianto per quella vita azzardata ma ora era tempo di resa. Aveva sempre vissuto da uomo libero, anche dietro le sbarre, per l’irruzione della conoscenza che lo aveva stregato. Ora avrebbe atteso la fine del suo viaggio tra compagni di sorte, sotto un tetto, però, una branda e un piatto da svuotare ogni giorno. Lo chiederà al commissario, questo favore, per non crepare di stenti, senza casa com’era, nessun parente e troppi giorni senza masticare. Del resto gli era dovuto, asserì, a chi lo aveva logorato per oltre cinquant’anni toccava ora mantenerlo. Un caustico sorriso dai rari denti si affacciò dalla sua bocca mentre saliva sulla vettura che lo avrebbe condotto in carcere. Ma siete davvero contento di finire ancora dietro le sbarre? “E’naturale - concluse - perché torno a casa mia”.

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