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Venerdì, 19 Aprile 2024
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L'ANALISI Israele-Palestina, Luca Baldelli: "Quanto sono simili le immagini che arrivano da Gaza con quelle storiche del Ghetto di Varsavia"

"Oggi, Israele è sempre più armato, aggressivo e protetto; ed è, soprattutto, uno Stato, mentre quello palestinese non è mai sorto"

La drammatica situazione del conflitto tra Israele e la Palestina, rieplosa in questi giorni, è di difficile comprensione e soprattutto affondale radici nel passato. Abbiamo chiesto, per avere due punti di vista differenti, di spiegare ai nostri lettori quello che sta accadendo in Medio Oriente. Ecco il contributo di Luca Badelli, ec consigliere provinciale, uomo di sinistra, studioso appassionato del Medio Oriente.

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di Luca Baldelli, ex Consigliere provinciale e studioso appassionato del Medio Oriente

luca baldelli-1-2Il grande scrittore palestinese Edward Said, umanista ed intellettuale di spessore, autore di uno dei libri più avvincenti sulla questione palestinese, ha scritto che la tragedia del popolo arabo di Palestina è quella di essere “vittima delle vittime”. Non c’è dubbio che l’idea di riparare al crimine storico dell’olocausto con la cessione della Palestina al popolo ebraico, non sia stata né giusta né lungimirante: da una parte ha privato il popolo arabo – palestinese, cristiano e musulmano, della propria terra, quella dove era maggioranza e dove viveva in pace con gli Ebrei da secoli (a parte ricorrenti tensioni causate proprio dallo sviluppo impetuoso del sionismo), dall’altra ha esposto il popolo ebraico ad una vita di privazioni, tensioni e minacce continue, in uno stato d’assedio permanente che ha giustificato e fatto passare in second’ordine crimini, corruttele, prepotenze ed abusi (si pensi alla vicenda dei Falascià etiopi, verso i quali sono stati commessi atti che rientrano nei crimini contro l’umanità).

Sbilanciati verso il sionismo e del tutto ingiusti, i piani di partizione del dopoguerra voluti dalle superpotenze, su alcune delle quali gravavano pesantissime responsabilità per lo scoppio della Seconda guerra mondiale, avevano previsto, nel 1947, uno Stato ebraico su un 56% del territorio palestinese inglobante, si badi bene, l’80% dei terreni agricoli coltivati a cereali ed il 40% dell’apparato industriale. Una simile proporzione condannava gli Arabi ad un destino di sottosviluppo e sudditanza, rappresentando essi il 67% della popolazione ed essendo loro riservato, in virtù delle proporzioni di cui sopra, il 44% soltanto del territorio.  Quei piani, già di per sé irricevibili dagli Arabi palestinesi, furono ampiamente superati e relegati nella carta straccia della storia da Israele, che fin dal 1948, si prese, mettendo dinanzi al fatto compiuto la comunità internazionale, molto più di quello che i suoi garanti mondiali avevano accordato e stabilito, fino ad inglobare l’intera Terra Santa e, addirittura, pezzi di territori di altri Paesi come la Siria (vedi le alture del Golan). Il tutto, con processi violenti di pulizia etnica e massacri che, in poco tempo, spinsero gli Arabi ad abbandonare le loro terre: Chaim Weizmann, nel suo libro “Trial and Error” del 1950 scrisse che questa fu una “pulizia miracolosa del territorio, una miracolosa semplificazione del compito di Israele”.

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Questi “miracoli” si chiamavano Salameh, Saris, Qastal, Biyar ‘Adas, Safad, Beisan, Deir Yassin, luoghi nei quali il genocidio e l’intimidazione sistematica furono la regola, da parte delle milizie sioniste, specie quelle legate alla destra estrema, ovvero l’Irgun Tzvai Leumi e la Lohamei Herut Israel, detta anche Banda Stern dal nome del suo fondatore, Avram Stern, il quale, cosa mai ricordata dai media e dagli storici che vanno per la maggiore, aveva ricercato un accordo coi nazisti per prendersi la Palestina, mostrando una curiosa identità o convergenza di scopi fra il nazionalsocialismo, desideroso di cacciare gli Ebrei dall’Europa e di attuare anzi la soluzione finale, ed il sionismo estremista, alla ricerca di ogni pretesto per spingere gli Ebrei stessi, in larga parte antisionisti, fuori dall’Europa e verso la Terra Santa. Il capo sionista di destra Zeev Jabotinsky, del resto, era un ammiratore del fascismo, così come le milizie del Betar, formazione sionista estremista e destroide, ancora nel 1934 / 35 erano presenti a Berlino con la camicia bruna, con grande sdegno anche dei sionisti moderati e progressisti. Convergenze taciute e gravissime, queste, ma inoppugnabilmente documentate, che furono alla base della tragedia della storia palestinese.

Nel 1948 nasce Israele, ben oltre i suoi confini stabiliti, ma per gli Arabi palestinesi è la nakba, la rovina nazionale, la sciagura che crea centinaia di migliaia e poi milioni di profughi verso i Paesi arabi ed una diaspora assai simile a quella che aveva interessato il grande popolo di Israele nel suo peregrinare per il mondo, preso di mira dal criminale antisemitismo (a proposito, sarebbe bene ricordare che semiti sono anche gli Arabi, e che l’odio verso gli Arabo – palestinesi, in particolare, rientra a pieno titolo in quell’antisemitismo che ognuno di noi deve rifiutare e combattere, sempre ed incondizionatamente). Al 1948 seguì il 1967, con la Guerra dei Sei Giorni e la conquista di quanto restava, precariamente o con accordi pattizi sottobanco con l’Egitto e la Giordania, in mano agli Arabi. In questo, almeno a partire dagli anni ’60, destra e sinistra sionista non hanno mai nutrito troppi dubbi, poggiando su una visione integralista religiosa a giustificazione dell’espansionismo: se un laicissimo Be  Gurion era ancora talmente tanto onesto dal riconoscere che gli Arabi palestinesi non potevano capire l’ingiustizia commessa a loro danno con la giustificazione dell’olocausto, visto che in esso non avevano avuto alcun ruolo, l’altrettanto laicissimo Moshe Dayan, dismettendo gli abiti del socialista utopista e kibbutziano, il 10 agosto del 1967, al “Jerusalem Post”, diceva: “Se ci si considera il popolo della Bibbia, allora si debbono possedere tutte le terre bibliche”.

La storia è sempre una chiave per capire il presente, pertanto questa ricostruzione non è stata un esercizio di pura passione storiografica, che pure non manca in me: senza inquadrare il passato di certe vicende, non se ne capisce l’urgenza ed il tremendo portato del e nel presente. Oggi, Israele è sempre più armato, aggressivo e protetto; ed è, soprattutto, uno Stato, mentre quello palestinese non è mai sorto, tra colonizzazioni di territorio volte a depotenziarlo sul nascere e processi di pace abortiti per la pretesa sionista di non riconoscere effettiva sovranità al popolo arabo di Palestina, in maniera equa e bilanciata, soddisfacendo anche il diritto dei profughi al ritorno ed al reintegro dei beni perduti, come hanno chiesto varie risoluzioni internazionali mai ottemperate da Israele.

Vediamo tutto ciò oggi, tragicamente ed in modo evidentissimo, nelle vicende del ghetto a cielo aperto di Gaza, nel quale ci si meraviglia che l’egemonia sia passata ad Hamas, dopo che per decenni si è sabotata ogni possibile soluzione giusta ed equilibrata in grado di avviare e portare a conclusione un vero processo di pace che non assomigliasse ad un patto leonino. Ci si meraviglia, e non si vede quanto simili siano, icasticamente e nella sostanza, le immagini che arrivano da Gaza con quelle che vediamo nei libri relativamente alla vicenda del Ghetto di Varsavia. “La tragedia di essere vittima delle vittime…“: mai espressione fu più dolorosamente calzante. E la comunità internazionale? Muta, o impotente, o complice, o ipocrita in modo intollerabile. Come grondano di ipocrisia e di malafede irricevibile quelli che assimilano le critiche rivolte ad Israele all’antisemitismo, salvo poi incassare il voto a sostegno delle imprese aggressive di Tel Aviv da parte di governi come quello dell’Ucraina, coi nazisti banderisti al potere, e dell’Ungheria, con il suo sovranismo che da più parti si è accusato di xenofobia ed intolleranza (si vede che l’appoggio al sionismo è una lavatrice che lava molto bene….).

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