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Correva l'anno.... di Marco Saioni| Perugia 1912, per colpa di quella mania della villeggiatura... finisce al fresco

Vincenzo Scota, pura essenza di ostinata “perusinitas”, mugugna tra sé. E’la prima corsa del mattino e intende godersi quella mezz’ora di fresco tragitto, fino alla stazione di Fontivegge

Certo che se va avanti così il caffè del Turreno rischia la chiusura, almeno di sera. Capolinea del tram di Piazza Danti. Seduto a fianco del finestrino aperto, Vincenzo Scota, pura essenza di ostinata “perusinitas”, mugugna tra sé. E’la prima corsa del mattino e intende godersi quella mezz’ora di fresco tragitto, fino alla stazione di Fontivegge. Sì ma è salito con largo anticipo, anche per assicurarsi il posto migliore. C’è dunque tempo per rimuginare mentre assaggia tranci di cronaca locale. No, non si campa più la notte, per via degli avvinazzati che tirano tardi davanti al Turreno. Per questo in tanti ne auspicano la chiusura, almeno d’estate, ma a pensarci bene una città come Perugia, non in grado di servire un caffè al turista che transita di notte sarebbe degradata a paesello. E poi lì trovi sempre il ghiaccio per l’occorrenza. 

Meglio la pubblica sicurezza, non fosse così assidua a multare chi suona il mandolino nei vicoli, piuttosto che stare addosso ai nottambuli molesti. Invece hanno insediato una nuova caserma di carabinieri al Bulagaio, dove la gente sparge di tutto. Con il caldo la cordiale essenza di rose e ginestre si arrende al tanfo del marciume. Un omaggio alla benemerita, evidentemente. La sinfonia olfattiva trae vigore anche dalla limitrofa via del Melo. Case senza latrine, anche se inutili, data l’assenza di fognature. E’certo che nessuno dei pezzi grossi del Comune abita il quartiere, altrimenti qualcosa si sarebbe visto. Vincenzo concepisce rare stelle per il proprio orientamento esistenziale. Al primo posto l’esercizio della critica, di solito affidata al brontolio; segue a ruota il concetto del “dove vè a sta peggio” ben corroborato dal preferito proverbio, secondo cui “è mèio magnà ’n gruspigno a chesa sùa che ‘n piatto de maccaroni ‘n chesa d’altri”. Inoltre non concepiva quelle smanie per la villeggiatura, così si esprimeva ogni volta con gli amici, probabilmente in ossequio a Goldoni, di cui aveva forse apprezzato una qualche rappresentazione.

Ecco, quella frenesia di bagni e viaggi, il nostro non la capiva, ritendendo che a Perugia, nonostante tutto, si stesse troppo bene. Certo, un filo d’invidia per i signori con la villa a Prepo a volte s’intrufolava, ma in ogni caso una passeggiata lassù poteva farcela anche lui. Quel giorno decise di prendere il tram, una vera eccellenza nazionale del trasporto urbano. Quattro chilometri abbondanti di rotaie capaci di aggredire il colle, superando un dislivello di centosettantacinque metri. Avrebbe visto scorrere, meglio del cinematografo, la sua città di buon’ora, da Corso Vannucci verso i tornanti in discesa, poi la sagoma di Santa Giuliana con il suo campanile che sembrava irsuto d’arpioni. Proprio in quel vasto spazio antistante sarebbe sorto il campo sportivo. Se ne parlava da un po’in città. Uno scivolare leggero, infine, fino al capolinea di Fontivegge. Era proprio lì che voleva sperimentare l’assurdo viavai dei gitanti. Alla stazione ferroviaria era brulicame e chiasso di voci, bagagli al seguito. Biglietti andata e ritorno in giornata, perlopiù. 

Le mete, quelle delle sponde tiberine più vicine, ma qualcuno azzardava il lago Trasimeno. Erano i clienti dei vagoni di terza classe, malandati e scomodi che neanche i carretti dei carbonari. Poveracci da compatire. Lui lo sapeva bene che l’inverno scorso gli era toccato di arrivare a Firenze. Riscaldamento in panne, spifferi ovunque per finestrini bloccati. E poi gli scossoni, tali da far cadere e mandare in pezzi le lampade a olio per illuminazione. Per non parlare delle ritirate, peggio di quelle di terza classe. Per carità, meglio i vagoni merci. Gli arrivi di prima classe, quelli però erano altro. Molti gli stranieri diretti all’albergo. Non
più i cenci sdruciti dei gitanti nostrani ma valige, trine e cappelli. Vincenzo ne era incuriosito e avrebbe volentieri trascorso qualche tempo in stazione, magari ammirando la volta affrescata nella sala di aspetto, fra un treno e l’altro. Aveva appena varcato l’ingresso quando un paio di baffi inquisitori gli domandarono il biglietto. Era un arcigno impiegato in divisa a sbarrare il passo. Di fronte a tale atteggiamento reagì con stupore e gentilezza. 
 
Il biglietto reclamato non gli sarebbe servito, argomentò, poiché non avrebbe messo piede in nessun convoglio, figuriamoci. Macché. Sfoderando un rigore asburgico l’impiegato, regolamento alla mano, ribadì con fermezza l’impossibilità di transito se non muniti di biglietto. La girandola di parole e gesti a andò avanti per un po’ con progressive variazioni stilistico-lessicali che franarono rapidamente verso quella china per cui dal “voi” si passa al “tu”, quindi al “cojone”. Quell’assurda pretesa aveva liberato l’indole ribelle del perugino che come noto mal sopporta rotture di cabbasisi. E poi quello era un regolamento del c… si o no? A questo punto il sorvegliante, sopracciglia infuriate, minacciò di chiamare una guardia. Ma per tutta risposta l’interlocutore, che nel frattempo aveva sfoderato anche lui i propri di baffi, alluse a uno strumento dentato usato dai falegnami. Quello, gli avrebbe fatto la guardia, enfatizzando il concetto con esplicite movenze. Non si accorse, per la foga, di un occhiuto poliziotto di passaggio. Fu subito dichiarato in arresto e tradotto in carcere per oltraggio. Quel lieve viaggio in tram scompigliò per qualche giorno il suo placido tratran, privandolo peraltro anche dei gruspigni di casa sua.

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