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Correva l'anno... di Marco Saioni | Perugia 1909. Una storia di cani randagi in città, contrapposti a guardie e "chiappini" tra sparatorie e fughe

C’è subbuglio a San Marco per un mastino di manto bianco che vaga minaccioso. Il cane sembra infatti avventarsi su qualunque persona o cosa in movimento. La cronaca registra di contadini o semplici passanti costretti al riparo presso cascinali o altri rifugi di fortuna. Addentata anche una vacca dentro la stalla. Ovunque scene di panico e vorticose fughe. Da cui la controffensiva. Ronde armate di residenti abbozzarono una battuta seguendo il passa parola. Ad ogni avvistamento, grandinata di sassi o scariche multiple di doppietta, puntualmente fuori bersaglio. Brutta aria, però. Così il molossoide abbandonò il territorio, ormai ad alto tasso di piombo.

All’alba fece il suo ingresso in città da Porta S. Angelo aggredendo tutte le ruote dei carretti in transito non senza avvisaglie ghignanti verso i rispettivi conduttori. Un tentativo di azzannare un carrettiere fallì per l’intervento di qualcuno munito di bastone. Altri inseguimenti per i vicoli. Il mastino sembrò dileguarsi ma riemerse in Corso Vannucci per imboccare Piazza Garibaldi (oggi Matteotti), consueto luogo di mercato. Da qui iniziò un autentico safari metropolitano pianificato dalla forza pubblica. Si allestì un commando composto da agenti di PS e guardie municipali, tutti armati a dovere.

L’agguerrita coalizione escogitò una manovra a tenaglia e la belva fu presto circondata. La situazione assunse un alto tasso di drammaticità, paragonabile all’epica sfida all’ O.K. Corral. Il ringhio di bava, sguardo d’assalto, fronteggiava maestoso gli agenti in avvicinamento, revolver puntati. Passi felpati e silenzio funesto. Un balzo folgorante, quello del cane, che azzannò sicuro la mano armata della guardia Taselli, subito liberatosi per il boato della pistola che distolse l’animale. La scena da commissario Rex chiuse tuttavia la vicenda. Avuta certezza di un’adeguata linea di tiro, per evitare di spararsi addosso, il gruppo di fuoco si dispose per l’esecuzione. Fu fragore e gemito rabbioso di palle in rimbalzo. Un delirio di scintille e schegge sul selciato della piazza, fortunatamente ancora “quasi vuota”. Ciò che non poté la mira dei tiratori lo ottenne il caso. 

L’eroica resistenza del cane fu domata solo per mera legge statistica. Un paio di colpi, chissà come, andarono a segno e sciolsero l’ardire del fiero, bianco mastino. Tutti soddisfatti, compreso il cronista poiché “non fu possibile all’animale di recare lesioni a veruna persona”. Non fu raccolto tuttavia il parere di coloro che si trovarono a passare nei pressi della piazza “quasi vuota”. Non che finisse sempre in sparatoria ma i regolamenti comunali erano piuttosto severi in materia di cani, per i quali era dovuta una tassa annua per il solo possesso. Balzello peraltro quasi raddoppiato dall’amministrazione comunale, rispetto a quanto prevedeva il regio decreto del 1888. Gli agenti, in presenza di un cane vagante, anche solo sospettato di rabbia, erano inoltre tenuti all’immediato abbattimento. Questo per i frequenti i casi di aggressione a persone e nel dubbio, si metteva mano alla pistola.

Ma il controllo delle norme, quali l’obbligo del guinzaglio e possesso di medaglietta era affidato a una specifica figura, quella dell’accalappiacani. Per tutti, il “chiappino”. Famoso era il Saletta, assiduo e inflessibile nel lavorare di laccio, come quella mattina al mercato. Un compito spesso sabotato da qualche ciurma di monelli in combutta con quei quadrupedi raminghi in cerca di scarti tra i banchi. Una condizione quella dei randagi, che li rendeva orgogliosamente meticci agli occhi dei ragazzini di strada, decretando una sorta di affinità di genere, tale da innescare azioni solidali, come quella di urlare, per impedire la cattura degli amici senza di guinzaglio. Una forma di resistenza al potere costituito da parte dei ribelli NO CHIAPP.

Uno smacco, tuttavia, anche enfatizzato, a lui sembrava, dall’abbaiare beffardo degli altri cani in regola, forti della propria impunità. Sì ma l’avrebbero pagata prima o poi, giurò sotto i baffi, sarebbe bastato un attimo per sorprenderli senza museruola. Pensieri astiosi che svanirono alla vista di una preda. Un vagabondo, testa bassa e coda fra le gambe si stava aggirando tra le gambe dei venditori che strillavano la freschezza della frutta come fosse ancora da cogliere. La strategia di caccia suggerì profilo basso e ostentata indifferenza per impedire l’intervento della teppaglia che avrebbe, come consueto, allarmato il bastardo. Ora sembrava solo uno tra i tanti interessati all’acquisto di prodotti tra i banchi, il laccio bene occultato dietro le spalle. Ignaro del pericolo, il cane si godeva un osso stremato ai piedi di una cesta di pomodori, proprio accanto al contadino, costui curvo e assorto nella cura cosmetica dei suoi ortaggi. E’ il momento. Disposto lentamente il cappio predispose l’agguato. 

Il gesto fulmineo, come lo strappo che seguì, produsse un grido che non era di cane. Il povero contadino, la corda stretta al collo, balzò in piedi con fare di cobra ma tributando lodi a santi e divinità tutte, con la fantasia lessicale dei maestri livornesi. Esaurito il flusso di litanie, si liberò dal laccio con gesto inviperito e subito, imperterrito, tornò alle consuete occupazioni. Folla sgomenta poi sghignazzante, insieme al coro di monellacci, che celebrò con dileggi lo scampato pericolo dell’animale fuggiasco. Ma come nulla fosse, il chiappino riprese il suo giro con grande dignità e consueta serietà professionale.

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