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CORREVA L'ANNO di Marco Saioni | Perugia 1909 - Il demone della gelosia irrompe in famiglia. Violenza brutale per un equivoco

Non chiasso ma pacata gazzarra in via Pinturicchio. Qualche bottega ancora aperta e le finestre disposte ad accogliere l’aria, quella soffiata da una tiepida sera di ottobre, decoravano il borgo di voci. Scaglie di parole per la via e tramestio di stoviglie, da riporre dopo cena, facevano anima di comunità. Rari cenci di nubi annunciavano prossime, plausibili piogge d’autunno. Grida di donna, improvvise e laceranti, fissarono tutti come in un dipinto di silenzio. Orecchie e sguardi orientati verso quella richiesta di aiuto, sempre più rauco e disperato.

Pochi dubbi, veniva da lì, proprio dalla casa di Attilio Borghesi, notissimo e stimato artigiano, gran lavoratore, titolare di un’avviata bottega di calzoleria. Padre e marito esemplare, per tutti “buono e affettuosissimo alla famiglia, cui non faceva mancare niente”. Prima di assumere qualche decisione, le persone accorse davanti al suo portone di casa se lo trovarono davanti, tremante e fuori di sé, in mano una cartolina insanguinata, senza indirizzo, faceva notare, recante parole di affetto, la prova schiacciante, a suo dire, di un tradimento coniugale. Tra i sussulti di un pianto dirotto affermò di aver per questo ferito, forse ucciso sua moglie, mostrandosi pronto a consegnarsi alle autorità.

Salirono in tanti e nella camera da letto, insieme ai bambini atterriti, era Laura, la moglie, irriconoscibile per il sangue che annegava il volto ma ancora cosciente. Guardate cosa mi ha fatto, ripeteva, mostrando lo scempio di una mattanza feroce. La Croce Bianca, incalzata da qualcuno, fu lesta nel trasporto. La diagnosi dei medici escluse il pericolo di vita, nonostante le lesioni multiple al capo, penetranti nella parete ossea, i tagli al volto, alle braccia e mani nel tentativo di parare i colpi di quella mannaia da cucina, ora in terra, la lama ghignante di sangue rappreso. Sarebbe dunque guarita in un mese, assicurarono all’ospedale, seppure sfregiata per sempre nel volto e con la mano destra maciullata e irrecuperabile, solo da amputare. Lui, il marito, consigliato da amici, assunse nel frattempo la coraggiosa opzione della latitanza.

Della cosa riferì diffusamente tutta la stampa, compreso il settimanale socialista, titolando “Le delizie del matrimonio” un pezzo incentrato sull’assenza di un’educazione civile, trascurata dalla morale monarchico borghese, ritenuta unico rimedio per non soggiacere agli stati psicologici alterati. La vicenda favorì invece l’intraprendenza del cronista de “La Democrazia” giornale critico con la gestione dell’ordine pubblico e dell’amministrazione in generale, esponendo al ridicolo il commissario di Pubblica sicurezza. Intervistare un latitante nel suo rifugio, grazie ad una dritta, fu, infatti, una beffa solenne per quelli deputati ad attuarne l’arresto. Arrivarono alla casetta, nascosta dagli alberi, dopo mezz’ora di auto, percorrendo di notte, sotto una fitta pioggerella, anguste strade di campagna. “Egli è là” fece l’accompagnatore, in forma teatrale, con mimica del capo. Era seduto, singhiozzante nella stanza in penombra, la bottiglia di vino ormai esausta ma pronto a rispondere alle domande. 

Quella maledetta sera, appena rientrato, “trovai mia moglie agitata e confusa” Alla richiesta di chiarimenti rispose con vaghezza, da cui la ricerca di un qualche indizio, alimentata dal perenne sospetto. Gesti frenetici nel frugare tra le cose, poi spuntò la cartolina di cui chiese conto, convinto com’era che la donna “da qualche tempo si era fatta capricciosa. Erano questi i suoi capricci?” Ma lei replicò con fierezza che quella mancanza di fiducia non meritava risposta e dunque se ne sarebbe andata poiché ormai logorata dalla sua assurda gelosia. “Queste parole mi tolsero il lume dagli occhi, ne so anche oggi rendermi conto di quello che ho fatto dopo”. Ricordi precisi però su quel ghermire i capelli e la serie di ceffoni, “perché volevo la confessione”. Le fasi concitate dell’aggressione provocarono la caduta del lume a petrolio e la stanza fu buia. I colpi inferti con la lama trovata in cucina caddero alla cieca. Un momento di follia delirante, di cui tuttavia non traspariva qualche pentimento sincero per l’atto in sé, solo la disperazione “per la pace e la famiglia distrutte per sempre”. 

Ci penseranno i giudici, disse, a esaminare la cartolina, prova ineccepibile del tradimento. L’elevata temperatura del possesso non era scesa. Altro piagnisteo. Il latitante non sapeva che il cronista, giusto il giorno prima, si era recato all’ospedale per scambiare due parole con la ferita. La giovane donna era seduta sul letto con aria affranta e avvolta da bende. Ricordava poco di quella sera, sicuramente i capelli strattonati, gli insulti umilianti, le percosse, il buio, la paura. Tutto per quelle parole sulla cartolina “sono acciaccata tuo silenzio. Saluti affettuosissimi”. Erano rivolte alla sorella, rivelò, da tempo residente a Milano. L’irruzione del marito le aveva impedito di aggiungere l’indirizzo Un affetto intenso, quello per la sorella lontana, che il coniuge non apprezzava, specialmente se espresso con effusioni verbali. Per questa ragione al suo arrivo cercò di nasconderla, alimentando così il sospetto che le tenere frasi fossero rivolte a qualche uomo.

Un marito certamente geloso, Attilio, ma in fondo “buono per la sua famiglia” volle precisare la donna, anche se, continuò, quella sera era indubbiamente ubriaco. Un’affermazione forse diretta a suggerire un attenuante per il marito violento. L’intervista poteva dirsi conclusa, avendo svelato l’equivoco che aveva scatenato quell’assurda brutalità, ma prima di congedarsi, il cronista fu trattenuto da una domanda, l’unica a lui rivolta dalla donna. Intendeva sapere se le sue condizioni di salute, in prospettiva di guarigione, avessero potuto evitare il mandato di cattura per suo marito. Una soluzione auspicabile per il bene di tutta la famiglia. Il masochismo non c’entra. Da sempre gli uomini soffrono solo per sé stessi, le donne no, loro anche per gli altri.
 

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