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Martedì, 16 Aprile 2024
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Correva l'anno di Marco Saioni | Perugia 1899 - ​Macchiette perugine. Storie di sbornie e caustiche battute

Un nuovo acquedotto. Questo chiedeva la striminzita borghesia perugina avida, a fine secolo, di poter spillare acqua dal rubinetto e magari non con il contagocce. Avrebbero atteso un ventennio, dato l’impegno ingente di risorse necessarie e una certa convinzione, secondo cui tale esigenza fosse in fondo ritenuta cosa da ricchi. Gli oppositori dell’amministrazione Rocchi non mancarono, a tale proposito, di rimbrottare spesso il sindaco, per una sua frase uscita durante una sessione del Consiglio comunale, che suonava così: il popolo ha bisogno di vino non di acqua.

Esternazione incauta ma certamente non del tutto priva di senso. La massa degli artigiani, operai e contadini era infatti avvezza ad attingere acqua, gratuitamente, da fontane e pozzi ma il vino, considerato una sorta di carburante indispensabile, quello si pagava. L’acqua invece no, sarebbe stata anzi considerata cosa contro natura pagare per una risorsa donata dal Padreterno. Il consumo di vino era elevato, anche se acerbo e scadente, in virtù d’inadeguate e arretrate tecniche di produzione. Insomma, un prodotto per palati alquanto indulgenti ma dal prezzo popolare. Stime prudenziali valutavano in un litro a testa la quantità assunta ogni giorno. 

Senza contare gli eccessi, spesso responsabili di patologie letali. Un genocidio di fegati, risse feroci per nulla o gravi fatti di sangue, se di mani aduse al coltello, le cronache abbondavano al riguardo. Si arrivò persino allo sciopero del fiasco, nel 1873, per protesta contro il rincaro del
prodotto. Guai a chi sgarrava. Se ne lamentò il Corriere dell’Umbria, avendo visto scritto sui muri “parole di minaccia a chi si fosse recato a comprare del vino”. Ma tra i seguaci di Bacco splendevano anche figure leggendarie. Autentici eroi del calice levato, immolatisi alla causa, come il gobbo Bandiera, spacciatore di giornali e fiammiferi, talvolta comparsa in rabberciati spettacoli equestri, dove esibiva la propria deformità. Devoto al bicchiere fino alla fine, concesse il suo corpo alla scuola anatomica in cambio di una consistente dote di vino. E poi Tegamino, dondolante sui lisi pantaloni spropositati, affacciato ai caffè per strillare l’ultima edizione dell’Unione Liberale, dispensando perle politico-filosofiche. 

Un giorno svanì, senza rumore, in una nuvola etilica. Dalle cronache emerge il popolare fiammiferaio Falcinelli Giovanni, detto “Sangue della
marina” probabilmente per l’imprecazione che era solito masticare. Un pomeriggio d’aprile del 1904, in pieno delirio onirico per overdose da Trebbiano, fu visto saltellare in Piazza Garibaldi (ora Matteotti). Rimbalzi goffi, scanditi da un motivetto dall’unica, ossessiva strofa. Il senso alludeva al curioso concetto di sentirsi una farfalla per cui, tale quale poteva volare. Così fece, seppure l’atterraggio non fu la carezza sopra un fiore. Si schiantò greve sul selciato e senza un lamento si appisolò. Non si risvegliò più. Notissimo in città era Tabarrino, apprezzato artigiano lucidatore di pavimenti, dalla battuta mordace e, inutile precisarlo, formidabile bevitore.

Le cronache riferiscono di un suo intervento, una sera del 1886, in Piazza Vittorio Emanuele (Piazza Italia). Un signore anziano aveva avviato un mezzo comizio con l’intento di mettere in guardia la cittadinanza. “E’ tempo di agire” sosteneva con forza, “i clericali si sono risvegliati” Tra la modesta folla anche lui, giacchetta sulla spalla, la pipa spenta, penzolante da un angolo della bocca, solita ciucca. All’ennesimo appello sul
risveglio dei clericali abbozzò un sardonico sorriso e consegnò alla storia un’affilata chiosa biascicata: “E quando hon dormito”? Spesso era raccolto in qualche via, tuffato com’era in un abissale sonno da fiaschi stremati. “Tabarrino sta su, se sordo? Vol dormì tuquie?...Si te trovon le guardie…e lassele venie.” Un dialogo raccolto dal vero e trasposto in un gustoso sonetto da Ruggero Torelli, insigne chirurgo perugino, coevo del personaggio, oltre che autore di argutissime poesie in dialetto.

E le guardie venivano ogni volta a trascinarlo via, non di rado imprecando per la sgobbata. Proverbiale la risposta di Tabarrino, refrattario a gendarmi, preti e all’ordine costituito: “fatiga boja che se’ pagato”. Battuta micidiale, da allora assurta a detto perugino per biasimare chi si lamentava degli oneri connessi ai doveri imposti dal lavoro. Vale anche ricordare la solenne sbornia che lo travolse lungo la scalinata di S.Ercolano, episodio ricordato con felice penna da Giuseppe Santucci. Dal vicino ospedale accorse un medico che ne stabilì l’avvenuto decesso, disponendo il successivo trasporto in sala anatomica. Dopo una nottata sul rigido marmo pare si svegliasse imprecando contro la moglie che si era portata via tutte le coperte. 

Il silenzio della consorte provocò una sequela memorabile di avemarie, tale da creare intensi trambusti e stupori. Fu riportato in corsia e, data la situazione, si convenne di attendere il direttore, dottor Ulisse Rocchi, che scafato com’era blandì Tabarrino con compenso in denaro, a patto di evitare inopportuna pubblicità sull’incidente. Come no. Rimessosi in sesto, si diresse in piazza del mercato e in ogni bancarella depositò la sua verità. Che non si fidassero dei medici dell’ospedale, visto che non sapevano distinguere un morto da un mortaccino.

Fu una notte d’inverno, uscito traballando da un’osteria fuori porta. Il passo beccheggiante, quasi un fluttuare nella nebbia novembrina. Non sentì freddo, confortato com’era da un drappello di bottiglie svuotate. La strada svanì in un intreccio di vaghe traiettorie verso il nulla. Rotolò in un dirupo e si assopì, stavolta per sempre. Qualche mese prima, nel corso dell’Esposizione Umbra del 1899, molti visitatori si erano fermati estatici di fronte al quadro di un pittore che rappresentava con vivo realismo la sua figura. Fu l’omaggio dell’arte a quella macchietta perugina assurta a leggenda.

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