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Aur, il Rapporto economico: l'Umbria deve tornare ad essere attrattiva, la nuova rivoluzione industriale è ancora lontana. Tutti i dati

Presentata l'ultima ricerca dell'Agenzia regionale: pil ancora in picchiata

L'Umbria deve tornare ad essere attrattiva per i turisti, ma anche per chi vuole fare impresa nella regione, viverci o sceglierla per studiare. In poche parole deve recuperare la sua capacità di fare redditto. E' quanto emerge dal Rapporto Economico Sociale dell'Aur. 

La fotografia dell'Agenzia descrive un'Umbria in cui tutto sommato si vive ancora bene: il tessuto sociale appare abbastanza coeso, la soddisfazione per la vita nel complesso continua a stazionare su valori medio-alti, il capitale umano si caratterizza per livelli di istruzione relativamente elevati. La buona reputazione di cui gode nel mondo passa per l’apprezzamento dei luoghi e delle esperienze per chi la visita ma anche dei suoi manufatti, che vantano riconosciute punte di eccellenza.

Tuttavia il futuro è a rischio: popolazione in calo, squilibri demografici, generazionali  e territoriali, declino economico, impoverimento della capacità produttiva, scarsa incisività degli investimenti pubblici e privati nel rafforzamento della produttività e nell’innalzamento della competitività del sistema, e in generale i ritardi cumulati nell’affrontare gli annosi problemi strutturali e infrastrutturali stanno ponendo l’Umbria in una condizione di estrema vulnerabilità.

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Se  le  potenzialità  dei  motori di sviluppo economico non verranno opportunamente rafforzate - è il monito della ricerca - la perdurante difficoltà a generare reddito rischia di rendere insostenibile il funzionamento dei propulsori di benessere (istruzione e formazione, servizi sociali e sanitari, servizi territoriali e ambientali), mettendo in discussione il tenore e la qualità della vita che oggi caratterizzano la regione.

Profili macroeconomici

Dal 2007 al 2017 il pil reale umbro cala complessivamente del 15,6%, praticamente più del triplo di quanto occorso su base nazionale e anche più della media delle regioni meridionali.

Il pil pro-capite nominale è di 15 punti inferiore rispetto al 100 medio italiano. L’Umbria figura tra le realtà deboli e in arretramento, insieme al Sud (Basilicata esclusa) e alle Marche, ma con performance peggiori.

Sul versante della domanda si distingue il recente dinamismo delle esportazioni, il cui rapporto sul pil ha toccato nel 2017 il 18%, per l’Umbria il valore più alto di sempre, complice – tuttavia – il basso livello del denominatore.

Dal 2014 risale anche la spesa per consumi finali delle famiglie, ma il livello pro-capite reale si conferma, come già dal 2009, più basso di quello medio nazionale, a significare che entro il territorio regionale le famiglie spendono per consumi finali mediamente di meno che nel resto del Paese.

La lieve ripresa degli investimenti a partire dal 2015 è molto modesta: la dotazione per unità di lavoro rimane a livelli assai bassi, molto lontani da quelli ante crisi e molto al di sotto del livello nazionale e delle regioni del Nord; stessa sorte per la propensione a investire, per cui l’Umbria si caratterizzava per valori più alti di quelli italiani e che ora è inferiore di 21 punti rispetto al 100 nazionale. La produttività reale del lavoro, tra oscillazioni varie, continua il suo allontanamento dal valore medio del Paese raggiungendo 14 punti di distanza dal 100 nazionale. Dopo il crollo del 2009 risale sul fronte manifatturiero, riuscendo a riposizionarsi su valori ante crisi, ma distanti di 16 punti dal dato italiano. La forbice più ampia si riscontra tuttavia sul versante dei servizi avanzati, ove tale gap tocca quasi 23 punti.

Si riconferma come elemento strutturale dell’Umbria il basso livello dei redditi da lavoro dipendente (i 9 punti in meno rispetto all’Italia salgono a 13 considerando il solo comparto manifatturiero). Il quadro restituito dai principali indicatori economici ci parla dunque di un’Umbria sfiancata da anni e anni di difficoltà, che arranca nell’impervio cammino della ripresa. Un quadro più confortante si osserva quando si passa dal reddito generato dagli assetti produttivi a quello disponibile che, per effetto dei meccanismi redistributivi, riavvicina i livelli umbri a quelli nazionali. In definitiva, la distanza Umbria - Italia osservata in termini di reddito disponibile pro capite delle famiglie consumatrici (nel 2016 -3 punti posta l’Italia pari a 100) non ha l’intensità di quella rilevata in termini di PIL unitario. Sotto questo aspetto, si rafforza la caratteristica umbra dell’alta percentuale di famiglie la cui fonte principale di reddito è costituita da pensioni e trasferimenti pubblici (il 41% del totale, a fronte del 38,7% rilevato in Italia).

Si riconferma altresì la tradizionale più equa distribuzione dei redditi in Umbria rispetto a quella nazionale: il reddito mediano delle famiglie, pari a 23.170 euro correnti, supera infatti quello italiano (20.713 euro).

Nel 2017 la regione registra una crescita reale del valore aggiunto nel terziario (+0,5%), ma continua a cedere sul fronte dell’industria in senso stretto (-0,3%), in un quadro nazionale di reiterato incremento (+3,7%).

A partire dal 2009, l’anno in cui il valore aggiunto manifatturiero tocca il valore più basso, in Umbria, similarmente a quanto avviene per la media del Paese, finisce per generare più reddito il settore della Pubblica Amministrazione che l’industria della trasformazione, continuando questo trend fino ai nostri giorni. In discesa, per il settimo anno di pesantissimi cali, anche il valore aggiunto reale delle costruzioni, mentre Italia e Settentrione proseguono nel cammino di una lenta ripresa già avviata nel 2016.

Gli effetti di queste dinamiche sui ruoli settoriali sono stati particolarmente evidenti: in un processo di terziarizzazione economica enfatizzato da una crisi prevalentemente industriale, dal 1995 al 2017 la quota del valore aggiunto generata dall’industria in senso stretto perde oltre 10 punti (intorno ai 5 punti nel Nord, nel Centro e in Italia). Il suo peso in termini di valore aggiunto complessivo nel 2017 non arriva al 20%, come la media nazionale.

Trasformazioni del mercato del lavoro

Ancora nel 2018 l’occupazione umbra contava 12 mila occupati in meno rispetto a dieci anni prima (quando raggiunse il massimo, ovvero 367 mila unità).

Al tasso di occupazione (15-64 anni) del 63% contribuisce il 71,5% di quello maschile e il 54,9% di quello femminile. Valori superiori alla media italiana ma ancora molto distanti da quelli del settentrione. Dal 2017 al 2018 gli occupati tornano ad aumentare nelle Costruzioni (+5,3%) e nel Commercio, alberghi e pubblici esercizi (+0,4%) e in agricoltura (+7,3%). Continuano a calare altrove.

Fenomeni rilevanti, che stanno cambiando la struttura del mercato del lavoro, attengono  alla tipologia contrattuale e alla posizione professionale degli occupati, oltreché agli equilibri generazionali. Diminuisce la componente indipendente (dal 29,9% del 2004 al 25,3% del 2018) e si accrescono i lavori non standard: il tempo determinato che, sul totale degli occupati dipendenti, passa dal 13,7% del 2004 al 17,9% del 2018; il part time, soprattutto tra i dipendenti (che passa da quota 12,8% al 20,4%); il part time involontario, in particolare tra le donne, che salta dal 7,7% al 20,3%, a significare che, nel 2018, le donne umbre costrette a lavorare in regime di part time sono più del triplo degli uomini e risultano relativamente le più numerose rispetto alla media nazionale, al Centro e al Nord del Paese.

Infine, tra gli occupati vi sono sempre meno giovani: quelli al di sotto dei 35 anni, pari a un terzo della forza lavoro occupata nel 2004, a distanza di 14 anni diventano poco più di un quarto, superati in quota dagli ultra 54enni (22%).

La disoccupazione, che ha raggiunto il suo massimo nel 2014, nel 2018 segna finalmente una contrazione del 13,8% (pari a 6 mila unità). Il fenomeno ha interessato maggiormente gli uomini, quelli più colpiti dalla perdita di lavoro negli anni di crisi, per i quali il tasso di disoccupazione scende al 7,7% (a fronte dell’11,0% femminile).

La disoccupazione negli anni di crisi ha avuto un carattere prevalentemente maschile, ha interessato prevalentemente gli ex occupati ma anche persone in cerca di una prima occupazione e i giovani. I giovanissimi hanno toccato punte vertiginose e il fenomeno, pur attenuandosi negli anni, risulta ancora molto pesante: nel 2018, di 100 persone dai 15 ai 24 anni che si offrono sul mercato del lavoro in Umbria, 31 risultano disoccupati (22 al Nord). Più contenuto il problema per i 25-34enni, il cui tasso di disoccupazione ancora nel 2018 è doppio (in Umbria e al Nord) rispetto a quello della fascia più anziana della popolazione in età lavorativa (54-65 anni).

Tra la popolazione laureata il numero di persone occupate diminuisce ma è proprio ai laureati che continuano ad associarsi i più alti tassi di occupazione: l’Umbria tuttavia, con il 78,4% nel 2018, si pone sotto i livelli medi nazionali ed ancor più di quelli del Centro-Nord. L’istruzione, che ha svolto in questi anni una protezione sul fronte lavorativo garantendo una maggiore occupabilità, non assicura sempre un ideale posizionamento in termini di inquadramento e nasconde spesso fenomeni di scivolamento verso fasce del mercato rivolte a persone con titoli inferiori. Questo è vero soprattutto in Umbria che, non a caso, si pone al secondo posto nella graduatoria regionale con un 31% di occupati sovraistruiti (in Italia la media è del 25% circa).

L’elevato livello di istruzione interviene ad attenuare altresì le differenze di genere presenti nel mercato del lavoro: nel 2018, il tasso di occupazione delle laureate umbre si attesta al 76% mentre quello dei laureati all’82%.

La quarta rivoluzione industriale

La modernizzazione digitale dell’apparato manifatturiero appare in ritardo, in Umbria come in Italia. Non solo per la cautela nell’investire in un periodo pieno di incertezze, ma anche e soprattutto per le debolezze strutturali del sistema produttivo regionale, composto in prevalenza da imprese di piccola e media dimensione, con una limitata incidenza delle società di capitale (19,5% del totale delle imprese attive nel complesso e 30,8% per la sola manifattura), bassa propensione alla R&S, una specializzazione produttiva più marcata nei settori tradizionali, minore capacità di accesso al credito bancario, un più fragile equilibrio finanziario, una diffusa sottocapitalizzazione e difficoltà di implementare articolati programmi di investimento.

Nel percorso evolutivo verso la Fabbrica intelligente l’Umbria conta un gruppo di pedine sicuramente già abbastanza avanti. Altri gruppi si stanno probabilmente attrezzando ma altre pedine, al momento troppe, sembrano distratte o addirittura assenti. È infatti cospicua la quota (90%) di imprese ancora non interessate dai programmi di Industria 4.0.

Per il futuro si stima una maggiore attenzione al filone della stampa tridimensionale (3,5%) e alla gestione dei dati, specie se su cloud, con particolare riguardo, poi, al tema della cyber- sicurezza (3,7%).

È tuttavia ancora timido – poco più del 7% della platea potenziale – il numero delle imprese che introdurranno almeno una delle tecnologie definite come di Industria 4.0. Il percorso da compiere non appare facile e i principali ostacoli sono equamente distribuiti tra la difficoltà di reperire adeguate figure professionali (55%) e la carenza di competenze all’interno (45%).

Il made in Umbria

Il made in Umbria rappresenta un sottoinsieme del made in Italy, ossia un raggruppamento di settori economici per i quali questo territorio assume, nel panorama nazionale, una posizione di particolare rilevanza rispetto ad altre regioni italiane. I principali settori che contraddistinguono  il sistema manifatturiero  regionale, comparativamente alle altre regioni italiane, sono quelli dell’Agroalimentare e del Tessile-abbigliamento. La Meccanica assume il peso relativo più elevato ma, pur in forte crescita, non si colloca ancora nelle posizioni che riveste in altre realtà regionali. Agroalimentare e Tessile-abbigliamento assorbono la quota maggiore di occupati, anche se negli ultimi anni hanno mostrato forti segnali di arretramento.

Il grado di apertura internazionale del made in Umbria appare particolarmente significativo, con un’incidenza delle esportazioni su quelle totali del manifatturiero molto più alta delle altre regioni italiane. Alcuni settori, tra cui ad esempio la Produzione di olio, sono orientati verso logiche di tipo commerciale (ad elevati flussi esportativi corrispondono altrettanto elevati flussi di importazione), mentre altri settori, come l’Abbigliamento e la maglieria, riescono a contenere le importazioni e a generare un maggior valore aggiunto, con evidenti effetti positivi sulla bilancia commerciale. A fronte di una presenza diffusa e generalizzata di piccole imprese, alcuni settori, come la Produzione di olio e l’Abbigliamento, appaiono più concentrati, con la presenza di imprese di maggiori dimensioni in grado di organizzare e coordinare l’attività di intere filiere manifatturiere.

Gli interventi di policy che potrebbero essere intrapresi sono riconducibili a diversi ambiti: l’inserimento di nuove professionalità in grado di qualificare e innalzare il contenuto immateriale dei prodotti; l’introduzione di nuove tipologie di prodotti e la transizione verso nuove frontiere tecnologiche, in una logica di sostenibilità; l’incentivazione delle imprese che contribuiscono alla costruzione di sistemi locali del valore; il sostegno alle forme di integrazione tra manifattura e servizi, primi fra tutti quelli turistici e culturali. Trasformazioni demografiche dei territori

Il trend di crescita demografica dell’Umbria si interrompe nel 2014 e negli ultimi quattro anni la popolazione regionale perde quasi 13 mila unità (-1,42%).

La contrazione delle nascite e l'allungamento della vita media (la speranza di vita alla nascita è di 86 anni per le donne e 82 anni per gli uomini, un anno in più della media nazionale) determinano un profilo della struttura per età della popolazione umbra che colloca la regione tra le più “anziane” d’Italia: se nel 2011 vi erano 180 anziani ogni 100 giovani, oggi, a distanza di soli 7 anni, il rapporto è arrivato a 204 over 65 ogni 100 under 14.

Il declino demografico non investe allo stesso modo i comuni umbri: quelli che subiscono una contrazione della popolazione residente sono i comuni di piccole e piccolissime dimensioni (fino a 7.500 abitanti), dove il calo demografico si va ad aggravare negli anni più recenti.

Le aree del “disagio demografico” rappresentano il 37% della superficie regionale, dove risiede circa il 14% della popolazione e sono riconducibili a gran parte della Valnerina – area gravemente ferita dal sisma del 2016 – e a molti comuni dell'Orvietano. In particolare, per 15 comuni il rischio di "estinzione" – in assenza di contromisure ate a invertire la tendenza – è altissimo. Tra essi, 4 (Poggiodomo, Polino, Sellano e Parrano) presentano condizioni demografiche ancora più gravi: basti pensare che, nel 2018, a Poggiodomo si contavano 56 anziani (over 65) e solo 4 giovani (under 14); a Polino 94 contro 15.

Le spese pubbliche per interventi sociali

L’Italia si caratterizza per una spesa molto orientata verso la categoria sociale degli anziani, anche comparativamente ad altri paesi europei, nonché per un livello medio-basso della spesa sociale pro capite, e la spesa regionale resta, con alcune limitate eccezioni, fortemente condizionata dalle scelte pubbliche nazionali.

L’Umbria in particolare è tra le regioni maggiormente etero dirette dallo Stato, pertanto restrizioni della spesa a livello nazionale si riflettono in modo diretto ed evidente nel territorio regionale, mentre i Comuni umbri sono tra quelli, a livello nazionale, con una spesa pro-capite piuttosto limitata.

L’Umbria presenta una spesa sociale pro-capite nel 2016 decisamente superiore rispetto alla media nazionale e si posiziona nel ranking come la settima regione italiana. Si tratta di una caratteristica storicamente sedimentata del modello sociale umbro, sebbene, comparativamente alle altre regioni, negli ultimi quindici anni si sia ridimensionata.

Per una regione come l’Umbria che, strutturalmente, ha un’incidenza relativamente elevata della popolazione anziana, una presenza relativa di immigrati sopra la media nazionale e un livello del PIL pro-capite decisamente insoddisfacente, la spesa pubblica sociale (allocata, a livello nazionale, in base alla consistenza della popolazione) genera un evidente malessere nella comunità regionale. Cambiamenti nelle regole allocative di queste risorse finanziarie pubbliche a livello nazionale potrebbero generare un maggior plusvalore a favore della regione, in funzione dei bisogni sociali.

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