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PERSONAGGI Ricordando il grande disegnatore Lucio Manna

Dico disegnatore perché ci sono artisti che ‘non’ sanno disegnare. Luciano detto Lucio era un sublime cesellatore, un miniaturista eccelso, e in più fornito di alta fantasia, di sottile umorismo e di raffinata immaginazione. Una miscela esplosiva. È morto agli inizi del 2021 di covid-19 con accanto, nella medesima camera, la moglie Carmen che l’aveva preceduto di 10 giorni. Una fine che mi fa star male ogni volta che ci penso, e lo faccio spesso. Il 7 aprile prossimo Lucio ne avrebbe avuti 90. Il 22 seguente con un gruppo di sodali (Luciano Giacchè, Massimo Stefanetti, Massimo Duranti, Emidio De Albentiis, Giovanni Manuali, Daniele Paparelli) e con il figlio Gianluca lo ricorderemo all’Accademia di Belle Arti, di cui era accademico di merito, con catalogo e rassegna di opere. 

Nella sua casa perugina, scartabellando nell’archivio, peraltro ordinatissimo e scrupoloso, ho trovato un dépliant elegante che annunciava una sua mostra in via del Duomo al civico 22 a Spoleto, una stanzetta disadorna dove per decenni espose nel periodo del menottiano Festival dei Due Mondi. Correva l’estate del 1967, avevo una trentina d’anni, eravamo colleghi al centro per il Piano di sviluppo economico e sociale dell’Umbria, e il cartoncino reca un mio scritto, in assoluto il primo testo di arte contemporanea da me stilato. Lo trascrivo (con tutte le ingenuità e le ridondanze), come un cimelio, un palinsesto polveroso di cui pur vado felice, e come un segno di amicizia verso un amico cui ho voluto molto affetto. 

«La vita può essere letta a occhi aperti, a occhi chiusi, in dormiveglia. Secondo. Non tutti, penso, sono in grado di vederla. Per quello che lo riguarda Luciano & Manna la vede come alternativa: qui la cronaca lì la deformazione. Insomma la realtà qual è da una parte, dall’altra il mondo senza bende, allo scoperto, individualmente presentito, sofferto, irto di simboli, onirico e insieme insonne. Ma la satira – impegno inconsapevole –, per non cadere in un divertissement epidermico, per cogliere nel segno ha bisogno di astratti furori, di bestializzare le superbe prerogative dell’uomo. In Manna la polemica sembra non poter essere se non di grana fine. Anche quando egli indulge, infatti, per qualche estro lirico, a guardare l’oggetto-uomo o gli oggetti-cose con occhio smagato, il suo lindore, talvolta ricercato, finisce per farsi ironico, perché occorre oggi più pudore per dire cose edificanti che per urlare con la faccia a terra. Ecco, appunto, in lui, la funzione dell’ironia nel paesaggio e nell’apologo. Ma in Manna la pittura naïve di tessuto colto non è arretramento crudele; per virtù cromatica dilata in ottimismo, in gioia di vivere. A differenza dei naïf genuini, per i quali l’innocenza primigenia fa da filo conduttore, per il Nostro è esattamente il contrario. L’innocenza perduta, e rimpianta, lo fa dissacrare miti su miti, e l’antinomia sentimento-ragione, quando entra in campo armata la satira, non può, in toto, che risolversi in clima fantastico. Manna, imbevuto di alto dilettantismo, lavora isolato, fuori dalle correnti, deli stanchi epigoni, in rinuncia agli ismi di comodo. D’altra parte, oggi, come ha scritto con felice sintesi Elio Vittorini non fan più paura né la letteratura materica né la musica elettronica né la pittura informale. Il che vale: nessuno più riesce a stupire i borghesi. Perciò, sostenutaoda talento indubbio, il mondo di Manna è mutevole e articolato. Perciò, lui orgoglioso del proprio mondo, i suoi temi sono di un’estrema coerenza. Coerenza, fra l’altro, che genera il linguaggio, Ultima Thule dell’arte». Ciao Lucio, ciao Carmen. Qui si sta vivi sì ma come le foglie sugli alberi, in autunno.
 

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