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INVIATO CITTADINO Monte Ripido, Galleria Diego Donati: una grande mostra racconta il polimorfismo pittorico di Luigi Frappi

Un iperrealismo filtrato attraverso una chiave di lettura che intercetta poesia in cose e casi della quotidianità

Monte Ripido, Galleria Diego Donati. Una grande mostra racconta il polimorfismo pittorico di Luigi Frappi. L’artista folignate che condivise arte e amicizia con gli indimenticabili Giuseppe Riccetti e Umberto Raponi.

In mostra una serie di lavori (prevalentemente) di piccolo formato che ci raccontano una visione quasi mistica del paesaggio e propongono nature morte di straordinaria “vitalità”.

Un iperrealismo filtrato attraverso una chiave di lettura che intercetta poesia in cose e casi della quotidianità. 

FOTO - La grande mostra sul polimorfismo pittorico di Luigi Frappi

Conoscevo la vocazione di Frappi alle opere di grande formato, come i sipari e gli sfondi molto apprezzati, anche per la generosità di colori e campiture. Un attaccamento alla natura svincolato dalla presenza umana a fare da filtro, a riprova di un filo rosso volutamente nascosto, come cosa preziosa e riservata, da mantenere in interiore homine.

Scoprii la chiave di lettura della realtà poeticamente filtrata, e decantata in quintessenza spirituale, in occasione di una lontana edizione di ‘Terra di Maestri’, in Villa Fidelia di Spello. Ricordo, di Frappi, una “cucina economica” davanti alla quale perdevo gli occhi, tanto ne ero affascinato, in un effetto da sindrome di Stendhal.

A Monte Ripido, le opere sono incorniciate in un ambiente che ricorda, anche nei materiali e nelle attrezzature, la nobile figura del frate incisore fra’ Diego Donati, nel cui nome la nipote Ada anima quegli spazi, densi di misticismo francescano e ancora impregnati degli inchiostri di quelle magistrali acqueforti.

Ora rintraccio lo stesso spirito francescano, prototipo di panteismo naturalistico intriso di religio, in un melograno (in versione grande e piccola), un finocchio, delle fette di cocomero (gallery). Mi viene in mente il “ceci n’est pas une pipe” di Magritte. Che mi fa dire, in dialetto perugino, “quisto nn’è miga n cicòmbro”. Per significare che quelle fette rosse di cocomero, scrocchiante al taglio della buccia verde-nera, evocano la quintessenza, l’intima sostanza, segreta e sfuggente, l’animus (se animo avesse) di quel frutto. Insomma: l’idea platonica e archetipica del cocomero.

PS.: Mi scuso per la mancata conoscenza del termine “cocomero” in lingua folignate. Dato che nel mio “Dizionarittu de lu cuccugnàu” [civetta] di Franco Bosi, ho individuato tante parole, e perfino stornelli maliziosi. Ma di cocomero, scrocchiante o meno, non mi è riuscito di trovare traccia.

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