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VISTI PER VOI “Chi ha paura di Virginia Woolf?” fa 'strike' al Morlacchi di Perugia

Grande successo per il capolavoro di Edward Albee riletto da Antonio Latella

Al Morlacchi fa strike il capolavoro di Edward Albee, riletto da Antonio Latella, “Chi ha paura di Virginia Woolf?”. Ormai un classico, degno di una riproposizione non scontata, sulla base di una nuova traduzione di Monica Capuani. Dramaturg Linda Dalisi, il cui lavoro paziente e appassionato si è rivelato prerequisito fondamentale per il buon esito dell’operazione.

D’altronde, da Latella non ci si può aspettare una chiave convenzionale. A dargli una mano, anche in termini di potenzialità prestazionali, sono una coppia di attori come Sonia Bergamasco e Vinicio Marchioni, nei ruoli di Martha e George, validamente affiancati da Ludovico Fededegni e Paola Giannini, che interpretano Nick e sua moglie Honey.

Latella innova introducendo, ad esempio, una robusta sezione musicale, potendo contare sulla versatilità della Bergamasco, che suona e canta con voce da blues (e maneggia/smonta le parti del pianoforte come un esperto accordatore). Un canto disperato, vero prologo alla tragedia. Per non dire dell’inattesa (almeno per chi scrive) performance pianistica di Ludovico Fededegni che propone un vero concerto, a commento di un momento di straziante umanità.

La recitazione è densa, impressionistica e spesso infarcita di un’ironia che non ricordavamo nel testo originale. Tanto che il pubblico, a tratti, specie all’inizio, ridendo punteggia partecipatamente alcuni momenti topici della pièce. Un modo di far andare su e giù l’elettrocardiogramma emozionale dello spettatore.

Geniali le soluzioni che si contentano di una scenografia scarna, ma estremamente funzionale.

I contrasti si sviluppano in un gioco al massacro, fatto di accuse e ritorsioni, tra fallimenti e cocci ormai insanabili. Con amarezza e persino con angoscia. Incolmabili. 

Non solo spettatrice - sebbene segnata dalla vita in tono minore - la coppia di giovani che si lascia travolgere e coinvolgere in quel clima da crudele resa dei conti, scandita da reciproche recriminazioni. Fino al crescendo in cui diviene fonte di contrasto, e anche di dolore condiviso, perfino il pianto e il rimpianto per la morte di un figlio immaginario. Forse unica via d’uscita per la coppia, ormai confinata in un mortificante cul de sac. Un grandguignol in cui non scorre sangue, ma si intercettano desolate paludi  di stagnante amarezza. E perfino le lacrime sono disseccate nel deserto dell’indifferenza. Quando sulla vita di coppia cala il sipario del consummatum est. Un male di vivere insormontabile e crudele. 

La morte si sconta vivendo, è stato scritto. Questo racconto di un’umanità frustrata e inaridita ne costituisce la prova provata. E nessuno meglio di questa compagine di teatranti (umanamente solidali, e artisticamente coesi) poteva svolgere il compito. Con tanto disperato e disperante rigore. A ciglio asciutto.

A PROPOSITO DI GATTI - Un’osservazione su una iconica presenza felina a destra della scena. La Compagnia ha perfino dato un nome ai cinque gatti ceramici. Si chiamano Lady, Taffetà, Bergin, Cleopatra e Ultimo. Perché stanno lì? Si favoleggia di un appassionato amore di  Albee per i gatti. Ma c’è chi osserva che in questo disperato sabba, orchestrato da una malefica  strega (la Sorte), la presenza felina stia a rappresentare una regale, muta testimonianza, indifferente all’ineludibile scorrere della vita.
 

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