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LETTI PER VOI La vita di Francesco Borromini e la chiesa eugubina della Madonna del Prato

L'Inviato Cittadino intercetta nel libro le tracce di un suo antenato pittore, Francesco (come lui, come suo nonno)

Un libro fondamentale ripercorre la vita di Francesco Borromini, legandone il nome alla chiesa eugubina della Madonna del Prato.

In bilico fra storia e architettura, fra verosimiglianza e fiction, fra documentum e inventio.

Si chiama “Il testamento di Borromini” (Morlacchi editore, 335 pagine, 15 euro) e ne è autore Massimo Capacciola, romano di nascita, eugubino di persuasa adozione da oltre quattro decenni.

Il libro è stato presentato ai Notari da un parterre de roi, con guest star Paolo Portoghesi, validamente affiancato dal super esperto, l’ingegner-architetto Massimo Mariani (col quale torneremo sul volume con un’interessante intervista), dal filologo, poeta e scrittore Donato Loscalzo, dall’architetto Marco Petrini Elce, presidente dell’Ordine degli Architetti di Perugia, validamente coordinati dal collega Giacomo Marinelli Andreoli.

Il libro è una delle letture più avvincenti che mi siano mai toccate in sorte. Per ricchezza di situazioni, personaggi inventati e reali, fra i quali il Santo Serafico. Situazioni e dialoghi creati con pennellate di verosimiglianza, tutto realistico, tutto incredibilmente credibile.

Detto fra noi, durante la lettura mi è capitato di incontrare anche un mio antenato pittore, Francesco Allegrini, del quale porto il nome, come già mio nonno Francesco, artista calzolaro di origine eugubina.

I singoli capitoli scandiscono momenti di grandissima intensità, preceduti da un esergo da segnare sul mio personale ‘cahier de citations’.

Il racconto è avvincente e si dipana anche con spiazzamenti cronotopici di assoluto interesse. Procede con ordine nella prima parte, quella storica o storiografico-letteraria, poi ci porta al presente. Non senza una nota a pagina 171, in cui si propone una “excusatio non petita”, unico neo per un lettore accorto.

L’abbrivio col quasi annegamento del ragazzo nel lago è altissima letteratura. Come lo sono tante riflessioni filosofico esistenziali sul (mancato) profumo della morte, l’invenzione delle maestranze dei morti viventi condannati alla reiterazione di atti inesausti (ottima soluzione nell’anno dantesco).

La figura di Borromini coi suoi tormenti, tra fede ed eresia, giganteggia, fino al delirio del seppellimento equino e dei suoi disegni, fino a una morte sucida, fra invidie e delusioni, maestranze e religiosi con vette di spiritualità e di ignominia, realizzazioni reali e mancate, abissi di umanità e picchi di religio (che, anche nell’etimologia, fra “res” e “ligo” certifica un solido ancoraggio alle cose di questo mondo, l’unico del quale possiamo dare testimonianza).

Una gallery ricca e preziosa contestualizza la chiesa della Madonna del Piano. I QR-code rimandano a interessanti interviste e filmati. Un libro che contempera il giusto rigore fra classicismo e modernità. Perché “classico” non è solo antico, ma ciò che vale nunc et semper. Quello, insomma, che è destinato a rimanere.

Un libro da leggere e da rileggere. Per quel tanto di suggestione che ci lascia. E di bella, bellissima scrittura. Cosa sempre più rara in un mondo in cui chi va in pensione dice: “Mi metto a fare lo scrittore/ Divento poeta”, senza avere digerito i classici, senza saper distinguere un monosillabo da un endecasillabo.

Massimo Capacciola di libri deve averne letti e digeriti parecchi. Lo stile non s’inventa. La classe, uno ce l’ha o non l’avrà mai. E Capacciola ce l’ha. Ma scrittori di razza, oggi, in giro non se ne vedono molti. Neanche a cercarli col lanternino di Diogene.

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