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Ai Notari, grande lezione di Corrado Bologna sulla fortuna dantesca nel Novecento

Ai Notari, grande lezione di Corrado Bologna sulla fortuna dantesca nel Novecento. Dante non solo attraverso le posizioni dei critici, ma anche come testo generativo per poeti quali Pasolini, Caproni, Eliot, Ezra Pound. Stimolato da una domanda, posta dall’Assessore alla Cultura Leonardo Varasano, Bologna risponde che se l’Ottocento è l’Inferno e il Novecento il Paradiso, non c’è dubbio che il secolo attuale sia quello del Purgatorio. Perché Inferno e Paradiso sono le cantiche dell’eterno, dove tutto è già dato, fisso e immutabile. Mentre il Purgatorio è il tempo della Terra, in divenire, aperto alla speranza, al futuro, alla progettualità. E anche il tempo - si spera - del riscatto. Dante, insomma, inventa uno spazio della mente, come scrisse Pound, uno dei massimi interpreti del sentire dantesco [e pensare che, quando vedemmo Pound in pigiama fare colazione al Falci – eravamo ragazzi – lo prendemmo per uno sbandato… ma non sapevamo ancora cosa fossero i Cantos!]. Poi il relatore solletica l’orgoglio dei Perugini presenti quando descrive la Platea Magna come agorà di democrazia. Un’affermazione convinta, non una furbesca captatio benevolentiae. Ma ci lusinga, siamo sinceri! Poi siamo alla relazione che si dipana con l’ausilio di un’efficace slide, a far capo dall’editio princeps folignate del 1472.

Partiamo da Benedetto Croce e dalla sua esigenza si distinguere le parti liriche da quelle strutturali (non-poesia) della Commedia come poema/romanzo teologico. Per venire a Gianfranco Contini e alla sua analisi, fonte di suggestioni dantesche, rintracciabili in Montale. Quindi Giovanni Gentile che sostiene come con Dante si affermi la filosofia italiana. Poi i riferimenti alle tre opere pascoliane e al suo dantesco ‘poetare e filosofare’. Quindi la domanda: “Dante voleva che circolasse la versione integrale e congiunta delle tre cantiche?”. Bologna pare non esserne così sicuro. Una parte interessantissima, e meno nota, è costituita dal riferimento al poeta russo Osip Ėmil'evič Mandel'štam che propone una straniante visione del linguaggio di Dante come emissione balbettante difettosa, ‘poveraccia’. Una prospettiva che smentisce la dimensione aulica, in senso linguistico e antropologico. 

“Omai sarà più corta mia favella / pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante/ che bagni ancor la lingua a la mammella”: una terzina che è stata per me una scoperta, non in senso esegetico (che è chiarissimo), ma per le evocazioni profonde che comporta e per i collegamenti suggeriti dal relatore. Di grande interesse le riflessioni sulla rima “favella/mammella”, degne di un grande dantista. Poi Levi, Zanzotto, Pasolini, Caproni, Eliot, Pound che hanno respirato e digerito Padre Dante fino a trarne fonte d’ispirazione. Grande relatore, grande conferenza. Del che dobbiamo ringraziare l’amico Carlo Pulsoni, coltissimo e modesto. Egregio tramite, a favore di Perugia, con le teste più lucide del panorama nazionale.

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