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Il Governo lo esalta, il pubblico impiego lo apprezza ma nel privato lo smart working è bocciato: poco produttivo e utile

L'indagine di Agenzia Umbria Ricerche su i dati delle aziende umbre con più di tre addetti dimostra il falso mito ai tempi del Coronavirus del lavoro a distanza. Bocciato anche dai lavoratori in fatto di benessere...

Caldeggiatto dal governo, super applicato nel pubblico impiego ma poco pratico o addirittura considerato non efficiente nel duro mondo del lavoro privato di casa nostra. Stiamo parlando del lavoro a distanza o smart working che da pratica minoritaria per certi uffici o professioni, è diventato con le restrizioni da Covid una sorta di panacea di tutti i mali per garantire servizi e allo stesso tempo evitare una maggiore diffusione della pandemia. La verità però è una sola: il lavoro a distanza nel privato non è una soluzione apprezzato o in alcuni casi è proprio impossibile da applicare.

L'Agenzia Umbria Ricerche ha analizzato i dati delle aziende private con almeno più di 3 addetti, in fatto di gestione del personale e modifiche, nei due periodi di maggiore chiusure per via dell'aumento dei contagi (marzo-maggio e ottobre-novembre). I ricercatori Elisabetta Tondini e Mauro Casavecchia hanno certificato quanto le indicazioni politiche nazionali e il tam tam mediatico sul lavoro da casa siano risultati privi di solide corrispondenze poi nel mondo reale del lavoro.

"Le crescenti aspettative di innovazione nell’organizzazione del lavoro legate a questa pratica - hanno scritto nel loro focus economico per Aur - faticano a trovare un riscontro tangibile nella realtà. Innanzitutto perché nel mondo privato, a differenza che nel pubblico impiego, vi sono molte situazioni che non consentono una sua sperimentazione: per 4 imprese su 5, in Umbria come in Italia, la natura dell’attività rende impossibile lavorare a distanza e, ove questa pratica è possibile, tende a interessare solo quote minoritarie del personale".

Nella realtà dei fatti in Umbria le imprese con oltre tre addetti che nel primo lockdown hanno sperimentato il lavoro a distanza in Umbria sono state appena 17 per cento addirittura sotto la media nazionale che si attesta su un modesto 21 per cento. Nel secondo semestre del 2020 in Umbria la percentuale addirittura è scesa sotto quota 10 per cento (8%).

"È ragionevole ipotizzare dunque che, non appena si sono verificate le condizioni per riprendere il lavoro in presenza, gran parte delle imprese abbiano preferito tornare indietro": analizzano Tondini e Casavecchia. I questionari raccolti nel mondo del lavoro umbro sono impietosi sullo smart-working: quasi un quinto delle imprese ha infatti dichiarato un calo di produttività, il 30% una diminuzione nell’efficienza della gestione dei processi produttivi, un 27% un aumento dei costi operativi.  Al contrario, solo il 9% delle imprese ha dichiarato un aumento della produttività, una quota analoga ha segnalato una maggiore efficienza produttiva e un 14% di imprese una diminuzione dei costi operativi. Per il lavoro a distanza si paga anche un costo sociale e in fatto di benessere per il lavoratori.  

"I riflessi sul personale che ha sperimentato il lavoro a distanza sono stati divergenti: un certo miglioramento del benessere lavorativo ha interessato il 38% delle imprese ma, come era ovvio aspettarsi, nel 45% dei casi è stata segnalata una diminuzione della relazionalità interpersonale". Una nota positiva, secondo Agenzia Umbria Ricerche, sta nel fatto che per via del ricorso a questo poco amato metodo di lavoro le aziende hanno investito in tecnologia svecchiando il parco macchine che era obsoleto. Ora però nasce una riflessione: ma siamo sicuri che lo smart working abbia invece portato innovazione ed efficienza nei pubblici uffici? La prodututtività è stata la stessa? Qualche dubbio c'è e resta. 

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