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Consumo di suolo, l'Umbria è sempre meno verde e più "urbanizzata": ecco tutti gli effetti negativi, di cui se ne parla pochissimo

In Umbria, nel 2020, sono stati 44.427 gli ettari di suolo consumato - ovvero la quantità complessiva di suolo con copertura artificiale esistente - pari al 5,26% del totale. Per quanto riguarda il consumo di suolo - ovvero l’incremento della copertura artificiale rispetto allo scorso anno - nel 2020 ci sono 48 ettari consumati in più rispetto al 2019. È quanto emerge dall’ultimo Rapporto sul consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici, prodotto dal Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa) assieme all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e all’Arpa regionale e fornisce il quadro aggiornato dei processi di trasformazione del territorio.

Il suolo della nostra regione, che complessivamente misura 845.600 ettari, risulta utilizzato per 29.973 ettari a livello urbano; la superficie agricola è pari a 382,100 ettari. La città che ha consumato più suolo si trova Orvieto che raggiunge i 7,14 ettari in più rispetto al 2019. Seguono Todi con +5,65, Terni con +3,59, Spoleto con +3,16 e Perugia con +2,90 ettari. Il capoluogo ha raggiunto quota 5.078 ettari di suolo a copertura artificiale. Terni invece si ferma a 2.670. L’aumento del consumo di suolo a livello nazionale è ancora più grave: cresce più il cemento che la popolazione. Nel 2019 infatti il suolo ormai sigillato avanza di altri 57 milioni di metri quadrati al ritmo, confermato, di 2 metri quadrati al secondo. Gli incrementi maggiori, indicati dal consumo di suolo netto in ettari dell’ultimo anno, sono avvenuti in Lombardia (con 765 ettari in più), Veneto (+682 et-tari), Puglia (+493), Piemonte (+439) e Lazio (+431). 

La Valle d’Aosta è la regione con il consumo inferiore, anche se in crescita rispetto allo scorso anno, con 14 ettari in più. “L’espansione urbana degli ultimi decenni ha creato sistemi pseudo urbani privi delle caratteristiche che sono proprie di un tessuto inteso come luogo degli scambi socioeconomici e dell’abitare” – sostiene l’architetto Stefano Gatti – “È venuto a mancare l’inserimento di quei meccanismi di riqualificazione mirati al benessere collettivo degli abitanti presenti, in varie misure e nelle diverse forme, nei vari centri umbri sino alla metà del secolo scorso. Ha dominato, come obiettivo di sviluppo prevalente, il target di vendita dettato dal mercato inficiando, così, l’elaborazione di criteri e modi insediativi mirati alla valorizzazione dell’abitare e dei suoi luoghi e non solamente al loro sfruttamento; in estrema sintesi: si è persa la capacità di creare reddito attuando iniziative di pianificazione e sviluppo urbano che generino benessere sociale inteso come migliore qualità della vita, minimo consumo di risorse e socialità degli abitanti”.

L’attività di pianificazione e di progettazione dovrebbe tendere alla ricerca di centralità diffuse (dotate di grande autonomia socio-relazionale) che creino e/o recuperino le connotazioni precipue dei luoghi mirando alla definizione di un continuum urbano che superi e riqualifichi l’attuale discontinuità tra il costruito e il non costruito (le aree di risulta, le aree dismesse ecc.) e che dialoghi con la campagna, che stabilisca quindi un rapporto fluido dell’abitare con il territorio della produzione agricola; riconsiderare, pertanto, le peculiarità dell’inurbamento. Sicuramente da abbandonate le logiche meramente speculative derivate dalle dinamiche insediative degli anni ’60/’70 che ancora condizionano fortemente i processi pianificatori e al contrario innescare un processo di rigenerazione.

“L’evidenza di questa necessità emerge anche dalla considerazione dello stato dei centri minori umbri che versano in condizioni di notevole crisi spesso offuscata dalla celebrazione di una presunta migliore qualità della vita” – continua Gatti – “che in realtà si riduce ad una falsa ed errata visione turistico-vernacolare dei territori erroneamente intesa come rifiuto, fuga da situazioni urbane compromesse e riscontrabile unicamente nella dimensione dei borghi. È vero, invece, l’esatto contrario, dato che sono la dotazione di infrastrutture fisiche, di insediamenti innovativi, di servizi qualificati, di risorse scientifiche e tecnologiche; sono la facilità di accesso al credito, la qualità del sistema formativo, il know how diffuso, ma anche sistemi di welfare efficienti, la presenza di infrastrutture culturali, ambientali, ricreative e di risorse umane qualificate a costituire l’ossatura di un sistema insediativo, che consenta di ottenere, in modo diffuso, una buona qualità della vita”. Occorre quindi generare un sistema di “urbanità ridotte” che nel suo complesso di connessioni e relazioni fisiche offra tutti i vantaggi imprescindibili dell’ambiente urbano.
 

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