UMBRIA E FUTURO | Povertà, svolta digitale in classe ed effetti post-pandemia: sempre più giovani lasciano la scuola. Che succede?
La pandemia si è rivelata, più che strettamente una causa di malessere, un pretesto per mettere in luce disagi già esistenti. Ecco come si sta correndo ai ripari per salvare questi giovani umbri
Se prima della pandemia la nostra regione si distingueva per essere sotto la media per abbandono scolastico, ad oggi siamo quasi in linea con il dato nazionale. Prendendo come punto di partenza la frequenza scolastica, dai dati si evince che i giovani italiani tra i 18 e i 24 anni che nel 2020, l’anno della didattica a distanza (dad), hanno abbandonato gli studi sono stati il 13,1%. Se per l’intero territorio nazionale è una quantità omogenea rispetto agli anni precedenti, per l’Umbria invece il 2020 ha significato un incremento significativo, passando dal 9,5% del 2019 all’11,5% del 2020. È quanto emerge dall'ultima ricerca di Agenzia umbra ricerche (Aur).
Le cause.
il rischio di abbandono scolastico è acuito: dallo svantaggio socio-economico, linguistico e culturale. Il 45,2% degli studenti di secondaria di secondo grado motiva l’assenza segnalando di avere fratelli o sorelle in età scolare impegnati contemporaneamente nella dad, facendo emergere la difficoltà
delle famiglie di predisporre più supporti informatici per permettere a tutti i figli di frequentare le lezioni a distanza.
L’avvento delle modalità online tuttavia ha invaso non solo la didattica, ma ogni forma di socializzazione sostituendo tutti i contesti reali con setting digitali. Ciò che è comunemente adocchiato come un rischio, ovvero l’utilizzo frequente degli strumenti digitali e online per i giovani, può invece essere considerato come una risorsa, nonostante i rischi che può comportare (come l’uso problematico di internet e la dipendenza da esso). Socialità e web: non per forza un binomio divergente. Dal rapporto Unicef The future we want emerge che l’utilizzo del digitale sia sentito dai ragazzi come qualcosa di positivo. Infatti, alla domanda “il digitale ci ha uniti?” il 49% dei giovani risponde di essere d’accordo o completamente d’accordo. Nelle situazioni di ritiro sociale, la mediazione digitale online è un primo passo verso il ritorno alla socialità. Si pensi ad esempio ai ragazzi che sono anche gamer e trascorrono il tempo giocando online a videogiochi che prevedono partite multiplayer in cui ci si può parlare e scrivere live durante le partite: in questi casi si creano vere e proprie micro-comunità, veri e propri gruppi di amici con cui è possibile avere contatti quotidiani attraverso la chat del videogioco. Eventualmente, tali amici online possono anche diventare amici offline.
Pericolo hikikomori.
Questi meccanismi non sono da leggere come disfunzioni in sé, ma come sintomi di un sistema disfunzionale che i ragazzi subiscono, sia nel macroambiente, sia in famiglia, fin da prima dello scoppio della pandemia mondiale. La pandemia si è rivelata, più che strettamente una causa di malessere, un pretesto per mettere in luce disagi già esistenti. Già da prima dell’avvento del Covid-19 i giovani che decidevano di chiudersi in casa erano in aumento, sfociando in molti casi in fenomeni come quello degli hikikomori, cioè coloro che hanno scelto di scappare fisicamente dalla vita sociale, spesso ricorrendo a livelli estremi di isolamento e confinamento; ma mai come oggi il fenomeno è stato così rilevante agli occhi della comunità. Questo perché i comportamenti legati al ritiro sociale che normalmente sono ritenuti disfunzionali, con la pandemia hanno ritrovato una dimensione “giusta”, in quanto dettata dalle esigenze di ostacolo alla diffusione del covid.
Per molti ragazzi in situazione di reclusione ha significato non essere più “diversi” dagli altri e, allo stesso tempo, un’occasione per essere visti. L’”essere visti” è proprio il fulcro del ritiro sociale. Rendersi invisibili tra le mura di camera propria è la difesa che il giovane sviluppa nei confronti di un esterno, di un “altro”, che non lo vede più come una persona, ma che lo giudica misurandone la performatività. Ciò che “sarebbe giusto fare”, come ad esempio un buon rendimento scolastico, un approccio accattivante con gli altri o il primato in attività extrascolastiche, va a creare uno sdoppiamento tra l’io delle aspettative e l’io delle emozioni, è allora che l’io delle aspettative muore e l’io delle emozioni prende il sopravvento. Per essere più precisi, sono le emozioni che prendono il sopravvento sulla persona: emozioni a cui non si riesce a dare un nome, come ad esempio l’ansia da prestazione, emozioni che investono totalmente e che trovano una via d’uscita, un modo di essere canalizzate, solo con attività che precludono la propria presenza fisica nello spazio pubblico. Rinchiudersi significa creare uno spazio e un tempo per sé stessi, alla ricerca di modi per riconoscere, sfogare e gestire il proprio mondo simbolico ed emotivo. In questo senso è di grande aiuto l’arte, intesa sia come arte figurativa che come arte della parola, sia fruita, sia prodotta. La fruizione che per eccellenza unisce arte figurativa e di parola è quella di videogiochi, fumetti e animazioni, in particolare quelle giapponesi: i manga e gli anime.
La proposta italiana.
Coloro che si chiudono in casa sono ragazzi che non riescono più a sopportare la pressione di una società performante e che si prendono perciò una pausa per tornare a vedere sé stessi nel pieno delle loro potenzialità, e per essere allo stesso tempo visti nuovamente, anche dall’esterno. Il ritiro dei giovani dalla società non è solo una perdita nel sistema produttivo: è un problema della comunità. A livello nazionale c’è una volontà ad andare in questa direzione segnata dal Disegno di
Legge n. 2372 recentemente approvato dalla Camera Introduzione dello sviluppo di competenze non cognitive nei percorsi delle istituzioni scolastiche e dei centri provinciali per l’istruzione degli adulti, nonché nei percorsi di istruzione e formazione professionale, in cui si propone una sperimentazione triennale all’interno delle scuole volta a implementare le competenze non cognitive, ovvero quelle che riguardano le relazioni e le emozioni.
In conclusione, il fenomeno è sicuramente nuovo per i professionisti in quanto il disagio di oggi è diverso da quello di una volta e l’insieme di cause può riguardare anche la sensibilità, la fragilità ed il giudizio degli altri. Non è un problema che riguarda solo ed esclusivamente la famiglia ma, nel complesso, anche la società e la comunità. La famiglia ha bisogno di sentirsi inclusa nella comunità, e per fare questo è importantissimo il delicato lavoro di rete che portano avanti gli uffici di cittadinanza, tra le famiglie e il contesto in cui vivono. Spesso, infatti, l’isolamento del figlio si inserisce in un discorso più ampio, in cui è l’intera famiglia ad essere isolata dalla società, sia fisicamente, quando non riesce a partecipare alle attività del territorio, sia emotivamente, nel momento in cui si prova vergogna per la situazione del figlio ritirato.