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Cronaca

Raggirano aziende e fornitori, in 17 finiscono nei guai per decine di truffe

Le accuse: vendite fasulle di auto, merce pagata con assegni rubati o emessi da conti inesistenti, attività commerciali svuotate di tutto. La base operativa in un ristorante del Trasimeno

Diciassette imputati, 40 capi d’imputazione contestati, 32 parti offese, un giro di soldi e merci di qualche milione di euro tra auto vendute e mai consegnate, assegni rubati o falsi cambiati in attività commerciali, acquisizioni di società per commettere altre truffe, ristoranti e alberghi gestiti senza mai pagare i fornitori. Sono gli elementi principali del procedimento davanti al giudice per l’udienza preliminare a carico di 17 persone, accusate di truffa, calunnia, ricettazione, falsità in atti, appropriazione indebita, sostituzione di persona, interruzione di pubblico servizio, minacce e percosse.

Secondo la Procura perugina gli indagati, difesi dagli avvocati Francesco Paolieri, Donatella Panzarola, Cristian Giorni, Valerio Collesi, Luca Pietrocola, Andrea Ruggiero, Anna Maria Gasparri, Edward Verdese, Sebastiano Pirisi, Virginia Marchesini, Lorenzo Reyes, Daniele Fantini e Giorgia Bernardis, avrebbero creato un’associazione per “il compimento di una serie indeterminata di delitti di truffa, ricettazione ed autoriciclaggio” utilizzando “società già esistenti” per farsi consegnare “dalle singole persone offese, numerosissima merce, anche di elevato valore economico, il cui prezzo veniva corrisposto con assegni falsificati o emessi su conti estinti o che venivano comunque protestati, ovvero non pagando la merce, dividendosi poi i proventi delle truffe” o reimpiegando il denaro per la gestione di un ristorante al lago Trasimeno. Locale che serviva anche da base operativa per il gruppo criminale. Uno degli imputati, che fungeva da prestanome in alcune truffe, era il cuoco del ristorante.

Tra le contestazioni, ad esempio, c’è la truffa delle auto vendute tramite internet: un BMW X3 è stata venduta a tre acquirenti diversi e mai consegnata; un’altra automobile è stata venduta sempre in rete, ma la momento della consegna è stato detto che era incidentata e quindi inutilizzabile, ma i soldi non sono stati restituiti. In altri casi, invece, avrebbero acquistato delle auto con assegni rubati e firme false, sparendo con la vettura. Per non pagare un autocarro, inoltre, dopo averlo acquistato si presentavano al vecchio proprietario con atti falsificati dei carabinieri o del tribunale con i quali era stato disposto il fermo del veicolo per multe non pagate o debiti e chiedevano indietro, in contanti, il denaro che aveva dato sotto forma di assegni scoperti.

Un fornitore di gasolio per le auto aziendali aspetta ancora il pagamento di fatture per 40mila euro.

Il gruppo disponeva anche di un agriturismo e per ristrutturarlo aveva ordinato 100mila euro di condizionatori da installare nelle stanze. La ditta che ha fornito gli apparecchi deve ancora essere pagata, mentre i condizionatori si presume che siano stati venduti e gli indagati abbiano trattenuto i soldi. Un’altra ditta che aveva fornito il materiale elettrico per gli impianti dell’agriturismo ha una fattura da 25mila euro pagata con un assegno emesso su un conto che era stato chiuso giorni prima (senza riconsegnare il libretto dei titoli). Per illuminare l’agriturismo, ordinavano 300mila euro di luci al led. Anche in questo caso merce svanita nel nulla e mai pagata. Per convincere le aziende a fornire i materiali, presentavano un falso bilancio da 9 milioni di euro di fatturato.

Con gli assegni, secondo la Procura, il gruppo criminale conseguiva anche una certa liquidità, recandosi nei bar e facendosi cambiare titoli da 200 o 300 euro. Assegni che sono risultati rubati o emessi su conti chiusi.

Altro capo d’imputazione riguarda la sottoscrizione di atti falsi per prendere in gestione bar e locali. Secondo l’accusa avrebbero proposto di rilevare l’attività per 30 o 50mila euro, chiedendo di poter iniziare a gestire il locale prima della stipula del contratto dal notaio. A garanzia lasciavano un assegno, rubato e con firma falsa. Una volta entrati nel bar o nel ristorante, lo svuotavano di tutto, dal mobilio alla merce contenuta. E sparivano, non prima di aver truffato anche i fornitori con ordini che non sono stati pagati, ma rivenduti a metà prezzo ad altre persone.

Poi qualcosa si era rotto nel gruppo criminale e avevano iniziato ad accusarsi l’un l’altro. Una donna per tirarsi fuori ha accusato di falsi reati i suoi sodali ed è stato accusata di calunnia.

Il presunto capo avrebbe minacciato di bruciare le auto e le proprietà di uno degli indagati “con una bottiglia di benzina”, e per dare più forza a tali minacce affermando di essere un “collaboratore di giustizia e di appartenere all’associazione di tipo mafioso denominata camorra”. Minacce estese ai familiari dell’uomo dopo “aver caricato la lupara”. Tra i motivi di lite la questione su chi dovesse decidere cosa fare e chi far lavorare nel ristorante usato come centro dalla banda, affermando che “qui comando io, chiunque deve fare un affare in questo comprensorio deve chiedere a me”.

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