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Cronaca

Tackle duro durante la partita dei dilettanti, calciatore condannato a risarcire l'avversario

La Cassazione conferma la decisione della Corte d'appello: "Non è stato un intervento dettato dall'ardore sportivo, ma da assenza di professionalità nell’esercizio della pratica sportiva"

Una scivolata pericolosa ha portato alla condanna di un calciatore e al risarcimento per l’altro giocatore ferito nello scontro. Una decisione confermata dalla Corte di Cassazione, con condanna al pagamento delle spese legali per il giocatore che aveva presentato ricorso contro la sentenza della Corte d’appello di Perugia.

Il giocatore, difeso dall'avvocato Marusca Ambrogi, ha presentato ricorso contro l’accoglimento dell’appello incidentale proposto dall’avversario, difeso dagli avvocati Cristina Ciufoli e Mario Monacelli, “in riforma della decisione di primo grado, ha condannato ... al risarcimento, in favore del ..., dei danni da quest’ultimo sofferti in conseguenza di un’azione di gioco calcistico, cosiddetto tackle in scivolata”.

Secondo la Corte “l’azione di gioco di cui il ... si era reso responsabile era stata caratterizzata dal ricorso a un’irruenza sproporzionata al contesto di una partita amichevole tra squadre dilettanti. Con conseguente condanna al rimborso delle spese di lite dei due gradi di giudizio, ponendo inoltre a suo carico le spese di consulenza tecnica di ufficio e l’onere del raddoppio del contributo unificato”.

La Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’appello che “ha legittimamente desunto il nesso causale tra l’azione calcistica intrapresa da ... (c.d. tackle in scivolata) e l’evento di danno, sulla scorta di considerazioni correttamente fondate su massime e regole agevolmente riscontrabili nella comune e quotidiana esperienza, a tale ambito potendo ragionevolmente ricondursi il riconoscimento che l’esecuzione di un’azione calcistica di tackle in scivolata (vieppiù se posta in essere con quella specifica carica di irruenza e di violenza che ebbe a contraddistinguerla nel caso di specie) non consenta né di fermare l’intervento intrapreso, né di dirigerlo con precisione”.

I giudici romani hanno anche ritenuto infondato che il fallo di gioco sia dovuto “al contesto sportivo in cui si sarebbe svolta l’azione, il quale sarebbe stato caratterizzato da un agonismo ed ardore sportivo ben maggiori rispetto a ciò che il semplice termine amichevole potrebbe far supporre”, confermando la “sproporzione tra la violenta forza dell’azione sportiva ed il contesto di gioco nel caso concreto, affermando che si trattasse di una partita amichevole tra squadre dilettanti”, riconoscendo che non si tratti di “un giudizio sull’agonismo o sull’ardore sportivo, ma ad un rilievo sull’assenza di professionalità nell’esercizio della pratica sportiva”.

Ne consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al rimborso, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio.

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