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Venerdì, 19 Aprile 2024
Cronaca

L'INVIATO CITTADINO Grande successo del dialetto come denominazione di locali tipici perugini: I significati

Oggi ci accorgiamo che, sull’onda di una moda, spesso la lingua locale è divenuta oggetto di consumo. E non ci pare un male

Dialetto perugino per denominare locali, pizzerie, pub, luoghi di ristorazione popolare e di socialità. Il dialetto come modalità di conservazione della memoria collettiva, di un “come eravamo” arguto e puntuto, non banalmente nostalgico. Si potrebbe correttamente affermare che il processo di normazione della lingua ci ha fatto perdere efficacia e spontaneità nella comunicazione. E, pertanto, sono benvenute le rivalutazioni identitarie. In qualche modo è corretto affermare che la lingua è il veicolo che ci consente di esprimere concetti di qualunque natura. Ad esempio, una verità scientifica nonsi può rendere in dialetto. Mentre la lingua locale è adatta ad esprimere un sentimento e risulta efficace nel raccontare emozioni
Oggi ci accorgiamo che, sull’onda di una moda, spesso la lingua locale è divenuta oggetto di consumo. E non ci pare un male.

Anzi! Purché si resti nei limiti della decenza e non si ricorra  come talvolta accade, al… turpiloquio, rendendo un pessimo servizio al dialetto perugino (che, nella variante di “fuori le mura” è grezzo, ma non smaccatamente volgare). Il ritorno della lingua locale spiega le tante iniziative commerciali denominate in dialetto. Nella nostra città ce ne sono a decine. Fece da battistrada “Dal mi cocco” che proponeva piatti della tradizione sotto questo brand, legato a un complimento, a una manifestazione d’affetto. “Cocco” significa, infatti, “caro, prediletto” ed è un termine spesso rivolto ai bambini.

Oltre all’Osteria del Dónca (parecchi amici mi hanno chiesto se fosse una mia personale iniziativa, ma così non è), vi sono altre denominazioni particolarmente spiritose. Mi piace citare il locale “Magna, Febo”, espressione proveniente dal mondo della caccia e solitamente rivolta al “miglior amico dell’uomo”. Quando il cane da penna riportava al cacciatore il volatile abbattuto, il padrone era solito gratificarlo con un bocconcino di pregio. Tra l’altro, Febo (Apollo) e la sorella Diana (c’era una rivista di caccia con questo nome) erano rappresentati con arco e faretra da cacciatori.

Per non parlare del “Gim ch’è bulo”, tipica espressione del Dónca (la inventò Diego Mencaroni, in riferimento al minimetro) ripresa anche da Guarducci per Eurochocolate nel 2011 (e ricordo che me ne chiese correttamente il permesso, non necessario!) Ben venga dunque il dialetto, anche quando indica luoghi e attività rifacendosi alla tradizione popolare. Ah, un’ultima annotazione. L’inviato Cittadino è titolare del marchio Accademia del Dónca, ma non ha finora fatto causa a nessuno. Perché un marchio si può registrare e diventa proprietario, ma la lingua è di tutti. Fino ad oggi.
 

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