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Cronaca

Confessioni di un boss sanguinario. Carmelo Musumeci: "Certi reati non si finiscono mai di scontare. Ma ergastolo e 41 bis provocano solo odio"

Ventisette anni di carcere, tra cui la detenzione in 41bis e un lungo percorso di cambiamento. Poi, nel 2017, la semilibertà. Ora lavora in una comunità di recupero a Bevagna e la sera torna in carcere, a Capanne

L’ex boss “sanguinario” della Versilia (il fazzoletto di terra a nord – occidente della Toscana) Carmelo Musumeci è in carcere da 27 anni. Lui, il protagonista della lotta tra clan che ha infiammato, tra gli anni ’80 e ’90 le province di Massa Carrara, Lucca, Livorno e La Spezia, è stato condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio di Alessio Gozzani, l’ex calciatore poi imprenditore assassinato all’autogrill della Sarzana nell’aprile del ’91. In quel periodo, come riportano le cronache di allora, lunga è stata la scia di sangue tra il clan Tancredi e gli affiliati di Musumeci per il controllo del gioco d’azzardo, della prostituzione e della droga.

Lui, nato a Catania nel ’55, ha passato lunghi anni in detenzione di 41bis, il cosiddetto “carcere duro”, prima all’Asinara e poi a Spoleto. Fino alla semilibertà ottenuta dopo 26 anni di detenzione dal tribunale di Sorveglianza di Venezia. Ora Musumeci, che nel frattempo ha conseguito tre lauree, il giorno lavora in una comunità per disabili di Don Benzi a Bevagna (in provincia di Perugia), scrive libri,  mentre alle 21.30 - da un anno e tre mesi a questa parte - torna nella sua cella a Capanne. Cella che è diventata per lui, in quasi trent’anni di reclusione, una dura protesta contro il carcere ostativo e al contempo, un lungo percorso per saldare il suo debito con la giustizia.

Abbiamo incontrato l’ex boss in occasione di un convegno che si è svolto all’Iss di Piscille Ma com’è adesso Carmelo Musumeci? Glielo abbiamo chiesto in questa lunga intervista in cui si è raccontato e ha raccontato i suoi lunghi anni in carcere.

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Lunga è stata la sua battaglia contro il carcere a vita, perché abolirlo?

“Non serve a nulla, non è un deterrente, avrebbe un significato se servirebbe a migliorare le persone, ma non è così. E’ difficile migliorare se hai la certezza di morire dietro le sbarre. Il carcere dovrebbe servire a fermare le persone. Serve solo una pena necessaria, non una punizione. 

Cosa le ha dato questa lunga esperienza in carcere?

"Più a quello che mi ha dato, penso a quello che mi ha tolto. Sotto un certo punto di vista  sono un fallimento per l’istituzione carceraria perché sia il carcere che l’ergastolo non è riuscita a migliorarmi. Se ho iniziato un percorso di cambiamento, questo lo devo solo all’amore della mia famiglia e alle relazioni sociali che in tutti questi anni sono riuscito a crearmi”.

Cosa ne pensa del carcere del 41 bis?

"E’ una tortura democratica stabilita per legge e così come l’ergastolo, credo non sia un deterrente. I figli del 41 bis, vedendo i propri padri trattati così, già da piccoli inizieranno ad odiare le istituzioni. Mi ricordo la mia bambina, quando veniva a trovarmi in quell’unico colloquio al mese. Batteva le manine sul vetro divisorio e piangeva perché non poteva abbracciarmi. Questa è una tortura".

Nel 2017 arriva la semilibertà, così come stabilita dal tribunale di Sorveglianza di Venezia. Per lei è stato un modo, dopo 26 anni, di uscire dall’ombra..

“Ho vissuto con la certezza che dal carcere sarebbe uscito solo il mio cadavere, con fine pena nel 9.999. Ora, grazie alla semilibertà, esco dal carcere alle 6.30 del mattino dove svolgo il mio lavoro di volontariato nella comunità Papa Giovanni XXIII di Don Oreste Benzi e sono coinvinto che ora la mia pena abbia un senso. Mi si sta dando la possibilità di rimediare al male che ho fatto, ma facendo del bene. La domanda che mi ha assillato per anni è stata cosa ci facesse la società di questa mia pena. Rinchiuso dietro le sbarre".

La sua esperienza dietro le sbarre le ha dato modo comunque di rileggere la sua esperienza a ritroso, capire gli errori, ciò che ha commesso?

“Certo, tempo per pensare ne ho avuto. Ho pensato soprattutto che sono diventato quello che non avrei voluto mai essere, ma purtroppo a volte si nasce colpevoli – sotto un certo punto di vista – e poi ci si diventa per cercare scorciatoie nella vita. Ho accettato le restrizioni del carcere e della libertà, ciò che non ho mai condiviso è che molte di queste restrizioni producono criminalità e certe situazioni posso solo che  incattivire e inasprire. A me è accaduto a un certo periodo, poi grazie alle relazioni che mi sono costruito, sono riuscito a migliorarmi. La famiglia, nonostante il supporto che mi ha dato, da sola può non bastare. Soprattutto se la società decide che tu sarai un colpevole a vita. E’ vero, io sono un criminale, ma se quelli là fuori non hanno neanche il coraggio e l’umanità di ammazzarmi prima, ma di tenermi murato a vita in una cella..forse non sono solo io il cattivo".

Lei sente di aver pagato il suo conto con la giustizia?

"No. Credo che certi tipi di reato non si finiscano mai di scontare. Adesso però credo che la mia pena abbia finalmente un senso, facendo lavori di utilità per la società. Penso anche che la vera 'pena' si inizi a scontare fuori dal carcere e non dentro.. Solo fuori puoi dimostrare il tuo cambiamento, dentro non hai nessun tipo di stimolo. E’ difficile sentirsi colpevoli in carcere, è più facile che questo accada fuori. Io questa mattina davanti gli studenti mi sentivo colpevole del male fatto e non quando si è chiusi dentro un carcere 24 ore su 24". 

Lei è stato accusato anche quale mandante dell’omicidio di Alessio Gozzani. Ha mai sentito il dovere o la voglia di chiedere scusa ai familiari?

“La mie condanna e la mia pena all’ergastolo è maturata in un ambiente malavitoso tra  bande. Eravamo e ci sentivamo in guerra. Io stesso ho subito un attentato in cui mi hanno sparato sei pallottole e sono stato tra la vita e la morte per diverso tempo. E poi ovviamente c'eranp le leggi non scritte in cui sono nato e di cui mi sono nutrito..Nel mio caso non ci sono vittime innocenti, loro volevano ammazzare me e io loro. Non ho avuto neppure parti civili nel processo perché quello era l’ambiente criminale nel quale vivevo. E’ differenze tra la morte di un innocente e di qualcuno che ti vuole ammazzare. Ovviamente se potessi tornare indietro non rifarei quello che ho fatto, ma con il senno di poi è difficile ragionare". 

Lei si è perdonato?

"No". 

C’è qualcuno che l’ha perdonata?

"Io mi sento colpevole verso la società, non nei confronti delle vittime dei miei reati. Perchè appunto, mi sentivo in guerra...tentarono anche di bruciarmi vivo. I miei figli invece sono cresciuti senza un padre accanto, questa è la colpa più grande.

VIDEO L'intervista all'ex boss della Versilia Carmelo Musumeci: "L'Ergastolo come pena non serve a nulla"

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