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Cronaca

Caso Amara, Csm e Davigo, la riforma della giustizia tra garantismo e giustizialismo

Il contributo del magistrato Giuliano Mignini, consulente della Commissione antimafia della Camera dei Deputati

Riceviamo e pubblichiamo un contributo sulla giustizia e sul Consiglio superiore della magistratura di Giuliano Mignini, magistrato in pensione e consulente della commissione antimafia del Comune di Perugia e della Camera dei Deputati.

Le notizie dei media sull'ennesimo scandalo che travolge più che la magistratura, il Consiglio superiore della magistratura, rendono evidente che un certo mondo che ha fatto del "garantismo" e della guerra al potere giudiziario la sua bandiera non ha una reale intenzione di una vera riforma della giustizia, nel senso di renderla più efficiente ed incisiva, ma vuole semplicemente una giustizia addomesticata e asservita all'oligarchia dominante, sfruttando certo le responsabilita' e le infedeltà di un certo numero di magistrati che tradiscono il giuramento prestato all'inizio della carriera.

È di questi giorni l'esplosione del caso Amara, anch'esso coinvolto nella vicenda Palamara (si poteva dubitarlo?) e della "loggia Ungheria" sulla quale sta indagando la Procura della nostra città.

La vicenda è ancora agli inizi ed è ovviamente piuttosto confusa, ma "promette" bene per il mondo che si autodefinisce "garantista" e a cui stanno a cuore più le modalita' di esercizio della giurisdizione che il fine della stessa.

Limitando per ora il campo alla questione dei verbali, cosa è successo?

Vi sono dei verbali di interrogatorio condotto dalla Procura di Milano nei confronti dell'avvocato Paolo Amara dai quali, secondo il sostituto Paolo Storari che seguiva l'inchiesta, per ipotesi di reato ai danni dell'Eni, emerge l'ipotesi di reato di "associazione segreta" che vedrebbe coinvolti, a quanto se ne sa, l'ex premier Conte, elementi della Guardia di finanza, magistrati ed altri. Tra i nomi che, a torto o ragione, sono stati comunque fatti, c'è anche il membro del Csm Sebastiano Ardita che, dopo una stretta collaborazione ed amicizia con Piercamillo Davigo, ha rotto ogni rapporto con quest'ultimo, non è dato sapere perché.

Storari ritiene che sia emersa l'ipotesi di reato di "associazione segreta" e informa il procuratore o un aggiunto da questi delegato del fatto e attende invano che questi provveda all'iscrizione della notizia di reato, a norma dell'articolo 335 codice di procedura penale.

Questo è un istituto molto delicato e spesso di non facile applicazione, ma è certo che, nel momento in cui emerga una notizia di reato, il pubblico ministero deve provvedere all'immediata iscrizione della stessa nell'apposito registro.

Purtroppo, nella riforma Castelli del 2006, l'esercizio dell'azione penale, ivi compresi gli atti ad esso prodromici, è stato accentrato nelle mani del capo dell'ufficio, con il dichiarato scopo di controllare le Procure. E così il sostituto Storari, sembra dopo inutili tentativi di sbloccare la situazione di stallo che impediva le stesse indagini (che debbono iniziare dopo l'iscrizione), decide di operare una scelta discutibilissima. Invece di rivolgersi al Procuratore generale distrettuale o, ancora meglio, al Procuratore generale presso la Suprema Corte, si rivolge ad un magistrato, certo assolutamente integro e capace (e lo dimostrano i furibondi attacchi che subisce dal fronte "antigiudiziario") ma che, in quel momento, era consigliere del Csm, cioè Piercamillo Davigo.

Quest'ultimo decide di informare il vice presidente del Csm Ermini e quindi il Capo dello Stato, il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e il primo Presidente della stessa e questi hanno confermato di essere stati informati da Davigo.
A un certo punto, l'addetta alla segreteria dell'allora consigliere del Csm che ha ricevuto le copie dei verbali da Davigo per custodirli nella segreteria, li trasmette ad alcuni giornali che le pubblicano.

Si può condividere o meno la scelta di quest'ultimo, ma si deve tener presente che Davigo ha adottato questa soluzione per evitare che due dei membri del Csm, che figuravano, comunque, coinvolti  nella vicenda della "loggia", ne venissero a conoscenza. Questa è stata la preoccupazione di Davigo.

E come al solito, questo magistrato, Davigo, che è tale anche se a riposo, è tornato al centro delle "gentili" attenzioni del fronte "garantista" e antigiudiziario che non storce il naso nei confronti di Palamara che è stato sanzionato dal Csm con l'espulsione dalla magistratura, che è imputato per ipotesi di reato tutt'altro che trascurabili e che si è rivelato coinvolto in attività, da verificare ovviamente, ma tutte connotate da illiceità. Solo che Palamara si "difende", con il solito mantra, tutto italiano, del "lo fanno tutti" e questo lo rende meritevole di essere coautore di un libro con uno dei personaggi della stampa più gravemente ostili alla magistratura.

Davigo no. Davigo è un uomo che potrà anche fare qualche affermazione non condivisibile. Alzi la mano chi, nella sua vita, non abbia espresso giudizi non condivisibili. Solo questa è la sua "colpa". Ma, sulla sua integrità morale nessuno può dubitare. Eppure, anche dopo il suo pensionamento, dopo aver difeso il suo diritto di completare il suo mandato di componente del Csm, a Davigo non viene data pace ed è lui il destinatario pressoché unico delle invettive antigiudiziarie.

La sua colpa è quella di essersi mosso,  nel modo da lui ritenuto più corretto, per far sì che gli uffici competenti si muovessero per far luce su una nuova, ipotizzata, consorteria segreta, composta da persone che ricoprono incarichi istituzionali o comunque rilevanti nella società.

Quanto possa esserci di fondato in questa ipotesi di reato dovrà essere accertato dall'autorità giudiziaria competente.
Quello che desta, però, scandalo è la forsennata e irresponsabile azione di delegittimazione condotta da un composito mondo giornalistico e politico che ha fatto ormai della guerra alla magistratura la ragione prima della sua esistenza e ha visto nel "caso Palamara" il grimaldello per scardinare l'istituzione giudiziaria.

Non c'è nessuna, autentica aspirazione di riforma della Giustizia e lo si vede in questi ultimi sviluppi della vicenda Palamara di cui quella dell'avvocato Amara è conseguenza: il magistrato espulso dal Csm e coinvolto in vicende non proprio edificanti, diventa un personaggio con cui si possono scrivere libri per alimentare l'attacco generalizzato alla magistratura, mentre ogni genere di calunnie e di invettive vengono riservate a un magistrato che si è distinto per preparazione e probita' morale ma che, in una situazione anomala dall'origine perché non accompagnata dalla tempestiva iscrizione della notizia di reato, ha ritenuto di seguire una procedura che molti non hanno condiviso e sulla quale si può discutere.

Basta con questa polarizzazione ideologica tra mondo forense politico e giudiziario, specie requirente, nata, sarà bene ricordarlo, dalla Riforma Vassalli e dall'introduzione del nuovo codice di procedura penale. Non ci può essere contrapposizione tra le garanzie processuali che debbono essere difese come mezzo per arrivare alla decisione e la fondamentale esigenza di giustizia che costituisce il fine del processo.

Ma in Italia, è, purtroppo, tempo di contrapposizione istituzionale, di "guerra civile istituzionale" sorta dall'inizio degli anni '80, dopo che si è consumato il periodo degli "anni di piombo" e degli assassini di tanti magistrati. E la delegittimazione di una istituzione, va, alla lunga, a discapito di tutti.

Giuliano Mignini, magistrato in pensione e consulente antimafia della Camera dei Deputati

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