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Cronaca

Correva l'anno di Marco Saioni | Perugia, 1912. I perugini cavalcano le prime moto. Vento in faccia e vite in fuga

Le cronache riferiscono di ragazzi, ovviamente di facoltosa famiglia, veloci e spavaldi su due ruote, spesso incuranti delle norme sulla circolazione

Il motociclista, solo lui può capire il cane che volentieri si sporge dal finestrino dell’auto, offrendo il muso al vento. L’emozione di cavalcare l’aria, dominando un mezzo scalpitante, simbolo di velocità e ardimento, fu esaltata dagli artisti del Futurismo. Veicolo per giovani maschi, tuttavia, cui non difettavano forza, spirito d’avventura e accettazione del rischio. Le cronache riferiscono di ragazzi, ovviamente di facoltosa famiglia, veloci e spavaldi su due ruote, spesso incuranti delle norme sulla circolazione. Per questo talvolta multati nei casi di guida azzardata nelle strade cittadine.

Frequenti gli incidenti con altri mezzi, specialmente quelli a trazione animale, come occorse al veterinario Guiducci nel procedere col calesse in zona Pallotta. Fu in prossimità di una curva che un ventenne, avvinto dal brivido di un’andatura inebriante, finì la corsa addosso al cavallo. Fratture per l’animale, paura ed escoriazioni per il malaccorto ragazzo. Non solo i cavalli, spesso erano i cani, a provocare incidenti, forse perché spaventati o
tentati dall’inseguimento di quello strano veicolo. Ne informa diffusamente una cronaca del 1912 riferendo di una caduta. Anche in questo caso il motociclista è un giovane liceale, ben conosciuto in città. La giornata spronava a osare, il rettilineo di San Sisto sembrava fatto per la sua moto che rispose generosa alla manetta del gas spalancata al massimo. Il paesaggio slittava in fretta, dissolvendosi in un turbine di polvere. Il fracasso del motore a pieni giri dovette coprire il latrato del cane che di lato affiancò la ruota per finire travolto. 

Gran volo del ragazzo, finito esanime sopra un cumulo di ghiaia. Date le ferite e la totale immobilità sembrò spacciato, ma si salvò, come riferisce il cronista, dovizioso nel raccontare i progressi di guarigione del giovane altolocato. Nessuna notizia del cane, ovviamente. Diversamente da oggi, dove all’animale eventualmente perito sarebbero dedicate anche le esequie. Quando la motocicletta iniziò a divorare le accidentate strade del circondario perugino, le reazioni degli appiedati oscillavano fra esaltazione e imprecazione, con certa preminenza del secondo stato. Una discreta fascinazione, tuttavia, prosperava anche nei confronti di tale mezzo, che diversamente dalle auto, utili anche al trasporto di cose e persone, era unicamente percepito come potente simbolo di libertà. Nessuna cornice di lamiera e vetro tra te e il paesaggio, in moto lo attraversi e sei parte di esso. Uno stato dell’anima, dunque, un’estensione di sé che permeava l’immaginario dei giovani maschi. Esaltanti quanto si voleva le quattro ruote ma possedere un’automobile era pur sempre una questione di status. Altra faccenda per le due ruote, che in ogni caso costavano dieci volte di meno, dove a cavallo del vento si viveva l’esperienza più simile al volo.

Come per le competizioni automobilistiche si assisteva con entusiasmo anche a quelle con motociclette. Famosa èmoto la corsa svoltasi al Trasimeno nell’agosto del 1909, annunciata con “colossali manifesti diramati nei maggiori centri”. Un circuito di circa sessanta chilometri riservato a cilindrate leggere e “di qualunque tipo di forza”. Un brivido per gli spettatori accalcati lungo il percorso e per quelli seduti nelle due tribune allestite al traguardo. Tra i primi dieci, su ventisei partecipanti, due perugini. Magari ne fu affascinato Giuseppe, diciottenne, spilungone e smilzo, un po’ curvo di spalle come a volte sono quelli troppo alti. Appena un velo di baffi. Faccia e fluenti capelli da ragazzo. Anche lui ben dotato, famiglia di possidenti e solida agiatezza. Davvero invitante la giornata, soleggiata, limpida e senza vento. Avrebbe dunque dato sfogo alla sua “invincibile passione per la motocicletta” come spesso accadeva, del resto. Un’ansia continua per la madre, consapevole della scarsa cautela che il figlio era solito usare nella guida. Del resto la poveretta aveva già perso un figlio, miseramente annegato in una fogna.

E allora, lunga e diritta correva la strada, la chioma strigliata dal vento, il motore irruente nella carreggiata deserta e l’aria che spinge sul viso. Giuseppe si godeva quell’esaltazione nel dominare l’esuberante cavalleria sotto la sella. Nei pressi di Collestrada si annunciava un curvone veloce e una traiettoria da impostare in assetto corsaiolo come in pista, chiudendo a sinistra. Un azzardo ma in fondo chi vuoi che passi a quell’ora e proprio lì. L’auto se la trovò davanti. Il radiatore ostile sembrava digrignare i denti. Era condotta dall’autista di piazza, Marino Rocchi che “portava alcune belle e distinte signore” in gita di piacere. Frenare era ormai inutile, meglio una fulminea sterzata verso il centro della strada per evitare la moto. Stessa manovra ma con identica direzione fu quella tentata dal ragazzo.

Il fragore dello schianto richiamò gente di passaggio, utile a sollevare l’auto dal corpo agonizzante del motociclista. Videro un pupazzo ormai disarticolato con fratture esposte e una profonda ferita del parietale “con fuoriuscita dell’occhio sinistro” i cronisti ci tenevano al dettaglio truculento. Svenimento di signore e autista che, estratta la pistola, tentò il suicidio ma qualcuno intervenne in tempo. Dal molino di Ponte San Giovanni partì la chiamata per l’autolettiga. All’ospedale furono dispensate “iniezioni energiche e medicature sapienti” ma Giuseppe era ormai in fuga dal mondo, verso l’ignoto, sorridente in sella alla sua motocicletta.

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