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Cronaca

Correva l'anno di Marco Saioni. Perugia 1859, Storia di un grande chirurgo perugino e le sue imprese, sconosciute ai più... quando salvò un fabbro dalla morte

, Alceste Bellini, di professione fabbro. Fu portato in ospedale alla fine di febbraio del 1859, semisvenuto, la camicia imbrattata di sangue

Il primato delle coltellate spettava indubbiamente ai laziali ma sullo stesso podio sostavano gli umbri, lesti di mano pure loro nell’aprirsi asole in pancia. Non si stupirono più di tanto, dunque, quando i sanitari si occuparono di un trentottenne perugino, Alceste Bellini, di professione fabbro. Fu portato in ospedale alla fine di febbraio del 1859, semisvenuto, la camicia imbrattata di sangue. Il chirurgo di turno valutò la ferita, inferta da mano gagliarda e penetrante in profondità nella parte superiore-anteriore del braccio sinistro. Un affondo insidioso, portato dal basso verso l’alto. Dato che l’emorragia era cessata, s’ipotizzò per un grumo di sangue, un consulto tra medici dispose l’uso di ghiaccio, fasciatura compressiva, dieta e immobilità. Insomma si convenne di lasciar fare alla natura. Il quadro cominciò tuttavia a peggiorare nei giorni successivi con segni evidenti d’ischemia dell’arto. 

Si ricorse, com’era d’uso, a frequenti salassi per drenare il sangue infetto, cui seguirono compressioni e dosi di digitale. Il caso appariva interessante, tanto da coinvolgere il chirurgo Ruggero Torelli, che visitò il paziente. Tolte le bende, scoprì il colore nero della mano, indice sicuro di cancrena incipiente. Dalla ferita, ormai una piaga purulenta, zampillava sangue arterioso, subito placato con semplice compressione della succlavia. Non rimaneva che legare l’arteria ma in un punto distante da quello che aveva subito il processo cancrenoso e dove fosse più integra. Intervento complicatissimo per l’epoca, alla portata di pochi. Il paziente fu sistemato nel letto difronte a una finestra, la testa inclinata sulla spalla destra. Praticata l’incisione, il chirurgo infilò il suo indice nella ferita per individuare e isolare la porzione di arteria, poi ricamò con ago e fili cerati. In breve il ristabilito flusso sanguigno avrebbe ridato vita all’arto e rianimato la mano. Il poveretto passò una notte talmente tranquilla da ridurre al silenzio anche il cuscino riempito di foglie di mais. Nei giorni successivi il suo stato migliorò, tanto da mostrare potente appetito. Fu autorizzato vitto abbondante e anche vino, poi dosi generose di lassativi. La stasi e l’appetito da fabbro non giovavano al transito intestinale. Certo toccò anche amputare una falange ma con riposo, ghiaccio e lavaggi se la sarebbe cavata e soprattutto non avrebbe perso il braccio.

Cinque mesi di degenza gli avevano procurato qualche problema da decubito e una scarsa mobilità del braccio offeso, che poi avrebbe recuperato, tuttavia, tornando a brandire il martello. Fu proprio così. Onore al medico, dunque, ma anche al paziente, operato senza anestesia, con le dita del chirurgo che sfruculiavano dentro la ferita tra fasci muscolari e arterie. Un tipo probabilmente fornito di anticorpi forgiati in fucina. Dell’impresa si parlò molto in città ma l’eco non superò mai la cerchia delle mura. Del resto la comunicazione era quella che era, mettiamo pure il carattere schivo del peruginissimo Torelli e si capisce perché altri che arrivarono dopo furono invece acclamati per analoghi interventi. In ogni caso i dettagli di quell’ operazione saranno descritti dal chirurgo nella prestigiosa rivista, il “Bullettino delle scienze mediche”, anno 1862. Un semplice, dovuto contributo, volto alla condivisione dell’esperienza presso la comunità scientifica dei chirurghi. Tre anni più tardi si sarebbe verificato un altro caso, stavolta riconosciuto come primato della chirurgia gastrica.

Fu dunque fortunato il ventinovenne Strenghini Alessandro, reduce da una sanguinosa rissa finita, inutile precisarlo, a coltellate, che gli aveva provocato lacerazioni in tre punti dello stomaco. Arrivò in ospedale che dire pallido era poco, la faccia, quella contratta e grigia di chi se ne sta andando in fretta. Era spacciato, ma Torelli decise di intervenire, sperimentando qualcosa di ardito, mai tentato prima; la resezione di un largo tratto della parete gastrica. Volle però l’assistenza dei tre professori, Mortara, Severini e Marrone e alla luce di una candela, sorretta da un infermiere, praticò l’escissione di una larga parte dello stomaco. Gesti precisi e sicuri che salvarono il morente nonostante gli sguardi allarmati e diffidenti dei colleghi presenti. Anche stavolta la cosa rimase tra intimi e addetti ai lavori, non fosse che anni più tardi, nel 1882, un chirurgo tedesco, Theodor Billroth conquistasse notorietà internazionale per aver attuato, per primo, si disse, la resezione dello stomaco, dopo averla sperimentata sui cani. L’operazione riuscì ma la paziente morì. Le suture cedettero qualche tempo dopo.

E no, reagirono sdegnati i perugini, ma non solo loro. Anche gli scienziati italiani protestarono in massa, dispensando ampia facoltà di prova per ristabilire la verità. Furono quindi le riviste di settore, comprese quelle francesi, e se lo dissero loro, a riferire sulla straordinaria impresa del chirurgo perugino, al quale andava attribuito il primato. Personaggio riservatissimo, si è detto, schivo di ribalta, ma anche cittadino partecipe delle vicende politiche giacché consigliere comunale e prima ancora, attivo tra i protagonisti del movimento liberale nell’affermare i valori risorgimentali. A lui è intitolata una via periferica ma il suo valore non fu certo marginale e vale dunque rendere omaggio alla sua memoria, nonostante la ritrosia della persona riguardo al parlare di sé.

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