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Cronaca

CORREVA L'ANNO di Marco Saioni | Quando i matti di Gubbio costruirono i ceri in trincea e fecero innamorare tutti i fanti

I riscontri di cronaca sulla corsa dei ceri sono rarissimi. L’evento essendo probabilmente percepito unicamente come fatto locale a uso di una ristretta comunità. Che non se ne cogliesse la potenza e lo spessore antropologico è del resto desumibile da un paio di verbosi articoli tratti dai quotidiani dell’epoca. Così il redattore de “La Democrazia” dal cazzeggio disinvolto, butta l’occhio su qualche “bionda miss“ espunta dalla folla, ricordandone una in particolare, quella famosa, anni addietro, divenuta “una perfetta ceraiola; pranzava con i baldi giovani di Gubbio, correva con loro” poi si sposò e dimenticò S.Ubaldo. Procedendo nella narrazione, che vira sempre più in ardite acrobazie concettuali, argomenta che l’evento andrebbe un po’svecchiato da quelle liturgie, certo senza sopprimerlo, poiché “sorgerebbe una rivoluzione che un reggimento di soldati non basterebbe a domare”. Ma dai. Si tratterebbe solo di dare alla festa “un’impronta più civile e moderna”. Più precisamente “eliminare i ceri e lasciare la corsa”. 

Insomma, in ossequio ai fermenti modernisti del Novecento varrebbe trasformare tutto in una gara podistica senza “quei arnesi infioccati sovrastati da santi di legno”. Poi giù con la proposta più surreale: avremmo le “stesse schiere di ceraioli, che prenderebbero il nome più moderno di equipe. Il capitano non sarebbe che il capo equipe”. Tutto qui. Non si registrano rilievi alla tesi ma sussistono solidissime ragioni per dubitare che tali opinioni siano state rivolte a qualche capitano ceraiolo. Di altro tono il servizio offerto da l’Unione Liberale che si affida per l’occasione alla penna di una colta collaboratrice perugina. Dal finestrino del treno l’inviata dà subito fondo al repertorio, tutto latte e miele, distillando “grandi chiazze di ranuncoli d’oro. Larghi campi di fave”. L’elegiaco narrare assorbe più di metà del lungo servizio, poi ecco “un nereggiar di tetti”. Siamo finalmente a Gubbio. Il paese è pieno di gente, scrive, palese omaggio al cavaliere di Lapalisse. La febbre che l’evento induce sembra distoglierla per un attimo dallo zelo descrittivo. Sarà mica per via di quei gruppi di uomini “gagliardi e scamiciati” fazzoletto al collo e fascia in vita. 

Sono i “portatori dei ceri”, ci informa. Ma la penna ritorna subito  svolazzare tra scorci paesaggistici e nubi fosche. Finalmente si accorge che c’è da lavorar di gomito per guadagnare un posto tra quella calca strepitante. Non troppo vicino “al luogo della cerimonia perché la pelle ci preme.” Ma una casa ospitale offre riparo e un sicuro balcone per guardare senza vedere. Quell’erezione di popolo, il torrente in piena di gambe, urla, sudore, devozione e bestemmie sono offerti ai lettori come “frenesia, baldoria e pazzo entusiasmo”. Poco adusa a maneggiare termini come, “capodieci”, “calate” e “birate”, lascia solo trapelare qualche stupore per quel “delirio che tutti contagia”. Persino un prete, nota, sfilata la tonaca, “rimasto in calzoni, scalmanato, affannato” si getta nella mischia. C’è il vecchio garibaldino, camicia rossa irsuta di medaglie, che spicca un volo e plana addosso a un giovinetto. Breve pausa della corsa. I ceri sono a terra e i “portatori rossi, scalmanati bevono ai barili come spugne”. Si riprende la corsa. Ma il treno del ritorno è già in stazione. 

Sotto la luce crepuscolare la cronista saluta il “lumeggiar dei ceri su per l’erta faticosa”. Il treno sferraglia lento. Una bionda compagna di viaggio cinguetta sulla scomodità di tali servizi. La scrittrice annuisce e rilancia: “è addirittura insopportabile”. Della serie: state a casa. Altra musica quella che segue, appropriata a  dare il senso di un sentire profondo e condiviso da tutta la comunità eugubina. Con la sofferta delibera del 28 aprile 1916 il sindaco di Gubbio decretò la sospensione della festa. Ci provarono in trecentocinquanta a chiedere la revoca dell’ordinanza che doveva suonare come un sacrilegio, ma lo stato di guerra prevalse, essendo vietata ogni manifestazione in tutto il Paese. Ci pensarono i ragazzi eugubini del Reggimento fanteria, impegnati nei combattimenti sul Col di Lana. Non era pensabile rinunciare al rito in onore del loro protettore Ubaldo, allTutti si slanciarono all'inseguimento dei "matti di Gubbio" e ognuno voleva raggiungere uno dei Ceri per poter dare il cambio” ca faccia del sibilare di pallottole . Decisero così di ottenere autorizzazione dal comando militare per una generica e fittizia “festa del Reggimento”. Sostenuti dalla complicità di un capitano, contagiato dal loro entusiasmo, inviarono a Gubbio in licenza un compagno per prendere le misure dei ceri. 

Una baracca si fece officina per la replica delle macchine con relative barelle e statuette dei tre santi. Quel giorno fu messa, alzata e corsa, tutto secondo tradizione. L’assalto alla cima da una serpentina di mulattiera sparse entusiasmo e lacrime:“osì Gerardo Dottori, testimone del fatto. A ricordare l’incredibile vicenda è il Museo della Guerra di Arabba in Col di Lana dove, oltre ai cimeli militari, è una teca, al cui interno miniature di soldati ceraioli riproducono il senso di quella strabiliante impresa. A guerra conclusa, una breve nota di stampa raccontò l’entusiasmo impetuoso e la solennità che accolsero la riedizione della festa dopo la lunga pausa bellica. Gubbio aveva perduto oltre settecento suoi figli ma i reduci dal fronte erano tutti lì. Via ch’eccoli.

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