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Salute

La caffeina previene il morbo di Parkinson e ne rallenta l'evoluzione, gli studi che lo confermano

Assieme a una costante attività fisica, il consumo di caffè incide in maniera benefica sullo sviluppo di questa malattia

Sono milioni gli italiani che cosumano regolarmente caffè, sostanza da sempre sotto indagine da parte dei medici e dei ricercatori come possibile indiziata nell'insergenza di tante patologie (quando se ne consuma in eccesso). Eppure in questo caso non è così. Infatti, secoondo la Società Italiana di Neurologia (SIN), il consumo di caffè sembrerebbe avere carattere protettivo sull'insorgenza della malattia di Parkinson, come afferma  il Presidente della Società Italiana di Neurologia Professor Alfredo Berardelli della Sapienza di Roma, una delle Università che hanno partecipato a un recente studio coordinato da uno dei pionieri italiani in questo tipo di ricerche: Giovanni Defazio dell’Università di Cagliari. 

Lo studio, a cui hanno partecipato anche le Università di Bari, Catania e Verona, oltre all’Albert Einstein College of Medicine di New York, al dipartimento di neurologia dell’ASST Pavia-Voghera e all’IRCCS Neuromed di Pozzilli, è stato appena pubblicato su Parkinson’s & Related Disorders e rileva come un pregresso consumo moderato di caffè ritardi l’età d’esordio swl monrbo di Parkinson, inducendo comunque una sintomatologia meno grave. Anche una moderata attività fisica quotidiana precedente all’esordio della malattia comporta un beneficio comparabbile, comportando soprattutto un miglioramento sulla sintomatologia non motoria come dolore, incontinenza, ipotensione ortostatica, stipsi, disturbi del sonno, affaticamento, ansia, depressione, ecc. 

C'è anche un'altra ricerca italiana pubblicato 2 anni fa su Neurobiology of disease, che aveva individuato caffeina e attività fisica tra gli 11 fattori di rischio e/o protettivi potenzialmente in grado di influire sull'insergenza della malattia di Parkinson. Questi due fattori erano stati già indicati come capaci di limitarne la progressione, se presenti prima dell’esordio dei sintomi. Il primo studio di Defazio fu presentato al convegno nazionale 2017 dell’Accademia Limpe-Dismov per il parkinson e i disordini del movimento: una review su 797 studi da cui risultavano a carattere protettivo: attività fisica, caffè, fumo. 

Un importante risultato di questa serie di studi, dice il Prof. Defazio, è che la distribuzione dei vari possibili fattori di rischio individuati (ad es. familiarità per malattia di Parkinson, dispepsia, ecc.) non è uniforme, ma questi possono variamente presentarsi, individuando così vari sottotipi eziologici.  

Queste anailis supportano la possibilità (spesso ventilata negli ultimi anni) che non esista una sola, ma che siano diverse le malattie di Parkinson, con diverse eziologie e probabilmente diverse evoluzioni, ognuna delle quali risponde a diversi fattori di rischio e/o di protezione. 

Altro studioso che si è a lungo decicato agli effetti della caffeina su questa malattia è Ronald Postuma dell’Università di Montreal, secondo cui il caffè non è solo un fattore protettivo sullo sviluppo della malattia, ma agisce anche come farmaco potenzialmente in grado di ritardarne l’evoluzione quando i sintomi si sono manifestati. 

"Siamo ancora nell’ambito delle forti probabilità – commenta Defazio -. Dalle nostre ricerche emerge una plausibilità biologica evidente dal punto di vista epidemiologico secondo cui alcuni fattori, come ad esempio i pesticidi, sono a rischio, mentre altri, come l’attività fisica o il caffè, sono protettivi, ma sembrano esserlo anche il thè, la vitamina E o i FANS. Va ancora capito come indirizzare l’azione di ognuno di questi fattori per una migliore riduzione del rischio: già altri Autori hanno visto, ad esempio, come non tutti i dosaggi di caffeina siano efficaci allo stesso modo.  Occorre soprattutto attenzione a non ricavare da questi studi l’impressione che il caffè sia una sorta di panacea neuro-protettiva, perché c’è ancora molto da studiare.  Si può dire che il caffè non solo può prevenire la malattia (come indicano nostri studi precedenti), ma anche ritardarne l’età di esordio e, probabilmente, indure anche una più lenta evoluzione della sintomatologia motoria". 

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