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Stefano Massini racconta, al Morlacchi, l’Alfabeto delle emozioni per sconfiggere l’analfabetismo emotivo. E l’indifferenza

Stefano Massini racconta, al Morlacchi, l’Alfabeto delle emozioni per sconfiggere l’analfabetismo emotivo. E l’indifferenza.

Un grande affabulatore che incanta con la magia della parola. Senza orpelli, né scenografia. Con la sola, coinvolgente riflessione sulla vita e sui sentimenti. Assecondato da uno staff tecnico di rango, affiatatissimo, che sottolinea – con piccoli effetti di luce, suoni in sottofondo – i momenti clou dello spettacolo.

Massini sembra estrarre a sorte da un baule le grandi lettere che gli forniscono l’abbrivio per i suoi ragionamenti. Non sa la parte a memoria, Massini. Ma confessa di andare a braccio, fedele al detto “rem tene, verba sequentur” (“abbi chiare le idee, le parole verranno da sole”).

E comincia con la lettera M, l’iniziale di Malattia, Mente, Matto, Melanconia, Misura, Museruola.

E poi la F di Felicità e Frustrazione, con la distinzione fra Ganzi e Sfigati… e tanto altro.

Contenuti che è difficile riassumere, tanto forte è il ciclone di riflessioni che si rovescia su un pubblico letteralmente incantato, tanto da evitare perfino l’applauso che romperebbe la magia, il fluire delle ponderazioni, proposte con un linguaggio semplice e accattivante.

Quindi la N di Noia (qui mi sarei aspettato Moravia) e la contraddizione palese della ricerca del Tempo Libero del quale, a un certo punto, non sai che fare. È la N di Nostalgia (letteralmente “dolore del ritorno”), anche quando si rivela falsa e, come quel personaggio di Goethe, ci si accorge all’ultimo momento che avevamo un desiderio sbagliato. E allora è meglio salire sul battello che ci porta lontano dalla meta erroneamente agognata. Perché ‘casa’ non è ‘domicilio’, ma stare in armonia con se stessi.

Il tutto condito di aneddoti, spesso tratti dalla cronaca e dalla storia statunitense. Dove le cose succedono sempre in grande. Perfino il delirio collettivo di una presenza demoniaca nel paese in cui, con atto liberatorio, si diviene liberi di piangere, ridere, urlare, sputare in faccia le verità nascoste. Tanto, si è giustificati perché è tutto frutto dell’opera nefasta (e liberatrice) di un Maligno intravisto da alcune ragazzine sul fondo di una pentola, in mezzo ad albume spiaccicato e multiforme.

Uno spettacolo di riflessione. Ma anche di critica dell’acquisito, del modo di vederci degli altri, talvolta appesi a un fatto marginale col quale ci vogliono definire.

Ed ecco gli esempi dei santi. Dei quali si intercetta un particolare, spesso sbagliato, fino a farli protettori di qualcosa di estraneo alla loro vita, tanto da farci sorridere per l’incongruità dell’intestazione. E giù a parlare di San Giuseppe da Copertino che, con la sua levitazione, diviene patrono degli aviatori. E di Gabriele, portatore di annuncio alla vergine e dunque patrono dei postini.

E poi San Lodovico (Luigi IX) patrono dei parrucchieri.

Quindi due santi legati alla peruginità (chissà se Massini l’ha fatto apposta o è frutto del caso!).

Il primo, San Lazzaro, patrono dei fisioterapisti. E dire che, in lingua perugina, “so ardutto n san Lazzro”, sta per “sono malconcio”, ripensando alla peste e al lazzaretto.

Il secondo è il nostro Lorenzo, intestatario della chiesa cattedrale. Conoscendone la fine del martirio sulla graticola, sopra i carboni ardenti, la pietà popolare non ha ricordato il riferimento all’eucarestia (“Assum est, versa et manduca” = sono cotto, girami e mangiami), reso col detto perugino “girateme che so cotto!”. Ma si è voluto – con crudele ironia – farlo patrono dei rosticceri. Insomma: il santo al barbecue!

Tutto questo, e tanto altro, in uno spettacolo da rivedere. Perché di volta in volta, a seconda dell’estrazione delle lettere dal bussolotto-baule, Massini ne cambia la sequenza. Sarà vero?

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