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Schegge di Antonio Carlo Ponti | Mi manchi come un concerto

Mi manchi come un concerto Torno ’sta settimana semi-serio: il che alla fin fine è la mia cifra di scheggiatore ossia autorllo di frammenti latamente aforismatici secondo la ‘filosofia’ del castigat ridendo mores: motto in latino sovente inscritto sul frontone di molti teatri. E che discende da una “Satira” di Orazio (I-1, 24): «Ridentem dicere verum quid vetat? - Che cosa impedisce di dire la verità scherzando?» Come di… comédie… canta quel geniaccio di Paolo Conte. Come dire che la vita troppo spesso comincia in commedia e finisce in tragedia… o viceversa che è assai meglio. Anni fa, quando scrivevo in prima pagina ogni settimana (2009-2016) il “Giovenale” per il “Corriere dell’Umbria” che avevo diretto dalla sua fondazione (19 maggio 1983), alcuni titoli potevano essere, che so: “Villa Fidelia la compro io”, “Basta tassare noi poveri ricchi”, “Sono io il vincitore del Superenalotto da 178 milioni” e così via, e un pugno dei miei venticinque lettori cadde nel tranello, vittime di credulità o di cieca fiducia nelle mie scherzevoli irridenti fake news, obbrobrioso fenomeno che oggidì stravolge ahimè le meningi fragili di milioni di ‘persone’. 

No, non conosco Mario Draghi. Magara! si dice al paese mio. Però spero che vinca con i doveri di tutti noi la pandemia, che io possa a 85 anni dire: sono adulto e vaccinato, e così sia per il pittore e scrittore Franco Venanti, anni 91, che mi dice aver protestato invano, mentre m’ informa smarrito che non è più la dolce moglie Carmen di Luciano Manna, amico e artista eccellente che è tuttora in un letto d’ospedale ricoverato nella camera dov’è morta nel letto affianco la compagna di una vita ricca di senso. Ti auguriamo, Lucio caro, di guarire e di piangerla, come capita a noi vedovi che restiamo inconsolabilmente, irrimediabilmente soli. Pieni sì di ricordi, di momenti felici, di voli, di parole, di pensieri comuni, di luci, di sfide vinte e di sconfitte, di piombo e di petali, perfino di rimpianti e di rimorsi. [Morti in Umbria a settembre 2020 n.73, a febbraio 2021 n. 935.] 

Mesi fa lessi lo struggente e pur forte “Diario di un dolore” (Adelphi) di C.S. Lewis (1898-1963, professore a Oxford, collega e sodale di J.J.R. Tolkien quello del “Signore degli Anelli”) narratore conosciuto soprattutto per il ciclo di romanzi fantasy “Cronache di Narnia“, oh sì, dal nome latino di Narni). “A Grief Observed” (un dolore osservato) il titolo in inglese, introduce alla lettura di 80 pagine che raggiungono a tratti una potenza di fuoco di sofferenza straziante, ma sempre dignitosa, contenuta, a volte ironica, english. Come un entomologo osserva in vitro l’assenza e il vuoto. 

«Ho il terrore dei momenti in cui la casa è vuota… Poi, d’un tratto, la stilettata rovente di un ricordo, e tutto il ‘buonsenso’ svanisce come una formica nella bocca di una fornace… I pochi anni che io e H. abbiamo passato insieme sono stati un vero banchetto d’amore; l’amore in tutte le sue modulazioni: solenne e festoso, romantico e realistico, a volte clamoroso come un temporale, a volte dimesso e accogliente come infilarsi le pantofole. Non un angolo del cuore e del corpo è rimasto insoddisfatto. … Forse chi è in lutto dovrebbe essere isolato in quartieri speciali, come i lebbrosi… Per alcuni sono peggio di un imbarazzo, sono un teschio. Quando incontro due sposi felici, so che pensano: ‘Un giorno uno di noi due sarà come è lui ora’… È l’atto di vivere che è diverso in ogni momento. La sua assenza è come il cielo: si stende sopra ogni cosa.»

Qui mi fermo, non ho spazio per trascrivere di più. Una volta m’incavolai: graffitari vi odio! Quanta gagliarda giovanile poesia, quanta nostalgia nel verso che ho posto come titolo a questa scheggia. L’ho visto passando in macchina steso con maiuscole alla buona su un murale 3x6 ardito come un proclama di eternità.

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