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SCHEGGE di Antonio Carlo Ponti | E se la vita non fosse che un diporto? Dopo un viaggio, un altro ancora...

Mentre sia pure in punta di spillo oso dire che il bel paese dove fioriscono i limoni l’ho almeno visitato tutto tranne Sardegna e Val d’Aosta – non contano i periodi delle vacanze estive famigliari rigorosamente al mare –, fuori d’Italia i miei spostamenti turistici si contano su una mano, se non consideriamo (spiritoso) Città del Vaticano e San Marino. Davvero ora che son vecchio recrimino la mia pigrizia o i timori, come quando m’invitarono a Limerick in Irlanda per un reading di poesia e vi rinunciai per sedentarietà conclamata. E leggendo che so di Bruce Chatwin il libro sulla Patagonia i brucianti rimpianti del mondo non visto si son fatti sentire sempre, sempre fuori tempo massimo. 

Hai voglia a dire con Xavier De Maistre che si può viaggiare anche nella propria stanza o con Virginia Woolf che si ha bisogno di una stanza tutta tua, muoversi è antidoto per non sentire la noia. Ora che è di moda la cancel culture che decreta l’ostracismo politicamente corretto, e Cristoforo Colombo è un bieco colonialista e l’Odissea di Omero il trionfo della schiavitù, e Céline un antisemita e Ezra Pound un fascista, eccetera, perfino i viaggi esotici nascondono venature di sfruttamento, se a servirti è una cameriera di colore. Un bel guazzabuglio. Ma la vera medicina è la libertà di parola, e l’arte della parola, per cui il gesto artistico o poetico è slegato dalla morale e dalla moralità personale dell’autore. 

Basta non leggere l’assassino François Villon, non guardare i dipinti di Caravaggio, non ascoltare l’antisemita Wagner, ignorare il Marchese de Sade. Basta non guardare dal buco della serratura. Tornando al viaggio beninteso ci sono viaggi e viaggi. C’è quello dell’amico Umberto Senin, geriatra, che con madre e sorella e cinque valigie con dentro la storia della loro vita lasciano Zara nel giugno del 1943 e si fanno esuli e profughi, rinegati da molti italiani come non italiani e invece come scrive Dino Messina nel libro omonimo italiani due volte. E c’è il viaggio, anzi la fuga dell’amico caro il pittore romeno Camilian Demetrescu (Busteni 1924-Gallese 2012), raccontata nel suo bellissimo libro di memorie “Exil. 

La prova del labirinto” che ho da una nostra visita nell’eremo di Gallese dove imperò e restaurò con lavori di dieci anni la Pieve romanica dei Santi Giacomo e Filippo. «Non potevamo più Mihaela e io vivere in una società di spie e di asfissiante dittatura, dove si trapanavano in ossequio al realismo socialista gli occhi ai leoni dei giardini perché gli occhi delle statue devono avere le pupille… Così decidemmo di fuggire in occidente, in Italia…» mi disse quando ci conoscemmo alla sua mostra a Perugia a Palazzo dei Priori nell’estate del 1972. Una fuga premeditata e preceduta da mesi di finzioni e di menzogne, una mostra immaginaria in Italia, i passaporti concessi ma sprovvisti di visto, il visto che arriva a Camilian e non a Mihaela, l’incontro fortuito e miracoloso con un ministro che interviene a favore, l’angoscia in aeroporto a ogni poliziotto, innumerevoli, che si avvicina, e così via in una sequela di scene già vissute in numerosi film. 

Il viaggio è una metafora suggestiva e immateriale, o fantastica come quello di Dante nell’aldilà dove regna l’amor che move il sole e l’altre stelle. E ci sono i viaggi di Gulliver e quelli di Candido, e quelli di Montaigne o di Goethe in Italia, terra infelice e sublime narrata da decine e decine di viaggiatori del Gran Tour. Infine.

Come dar torto a José Saramago quando ne “L’ultimo quaderno” (citando un passo del proprio “Viaggio in Portogallo”) a pagina 82 così scrive: «Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono.. E anche questi possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrativa. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: ‘Non c’è altro da vedere’ sapeva che non era vero. La fine del viaggio è solo la fine di un altro. È necessario vedere quel che non si è visto, rivedere quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si era visto d’estate, vedere di giorno quel che s’era visto di sera, col sole laddove la prima volta scendeva la pioggia, vedere le messi verdi, la pietra che ha cambiato posto,
l’ombra che non c’era. È necessario tornare sui passi giù fatti, per ripeterli e per tracciarvi nuovi cammini. È necessario ricominciare il viaggio; Sempre. Il viaggiatore torna subito. Così è. Così sia.»

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