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SCHEGGE di Antonio Carlo Ponti | A riguardo di Baruch Spinoza....

Aprivo una delle prime schegge reo confesso di non aver letto “Etica” di Baruch Spinoza, pensatore sommo. Mio nipote che studia filosofia mi dice: «Nonno, eccola qui» e mi rifila un librone fittamente annotato e sottolineato in vari colori. Leggo subito la cronologia, mi scuote dentro un episodio della sua vita e ci scrivo questo raccontino: «Mi chiamo Baruch Spinoza, sono nato in Olanda ad Amsterdam e sono ebreo sefardita da una stirpe proveniente dal Portogallo. Avevo ottoanni quando mio zio Aaron mi condusse ad assistere alla fustigazione pubblica di Uriel da Costa. La piazza silenziosa era stipata e si soffocava per il puzzo. Uriel si è meritato – mormoravano tutti – le sedici frustate sulla schiena, coperta da una camicia bianca per mostrare le ferite, che al terzo colpo cominciò a grondare sangue. Uriel era legato a una colonna e ci volgeva le spalle, il popolo era muto e sussultava a ogni colpo al suono sordo della frusta, se ne sentiva il sibilo e qualcuno li contava sommessamente. E i gemiti soffocati del condannato. 

Uriel il Blasfemo. Lettore distorto delle Sacre Scritture, impavido nell’eresia e orgoglioso delle bestemmie. Dubbioso, miscredente, predicatore di spropositi teologici. Questo mi diceva zio Aaron mentre per vicoli e canali si andava allo spettacolo cruento. Mentre Uriel subiva la punizione zio Aaron mi stringeva forte la mano nella sua umidiccia e tremante. Uriel che aveva rifiutato la mordacchia alla dodicesima sferzata emise un urlo così bestiale e alto fino alla cima del mondo che mi si accapponò la pelle e svenni tra le braccia di zio Aaron. Rinvenni credo subito dopo mentre il Rabbino Capo del Tribunale ordinava al carnefice di sospendere e quindi annullare l’esecuzione. «Anche il peggior peccatore ha diritto al perdono» disse rivolto allo zio il cuoiaio Benjamin Monteiro, un vecchio dalla lunga e bianca barba che pareva un profeta, e che – si diceva nel rione – sapesse a memoria tutti i cinque libri della Torah. 

Riaprendo gli occhi, avevo brividi alla vita e sudavo freddo, intravvidi la faccia tumefatta e stralunata di Uriel l’eretico mentre lo portavano via a braccia, una maschera sanguinante e spettrale che non aveva più niente d’umano, un fantoccio, simile ai musi dei capretti scuoiati e appesi nella macelleria di Nahum, il nonno del mio amico Nathan. Quanto raccontato fin qui è uno dei miei primi ricordi d’infanzia o meglio della mia vita, fino a quel giorno per me d’abominio le mie giornate vegetavano tra casa, scuola e giochi nel cortile di Deborah, la sarta sciancata.

Riaprendo gli occhi, avevo brividi alla vita e sudavo freddo, intravvidi la faccia tumefatta e stralunata di Uriel l’eretico mentre lo portavano via a braccia, una maschera sanguinante e spettrale che non aveva più niente d’umano, un fantoccio, simile ai musi dei capretti scuoiati e appesi nella macelleria di Nahum, il nonno del mio amico Nathan. Quanto raccontato fin qui è uno dricordi d’infanzia o meglio della mia vita, fino a quel giorno per me d’abominio le mie giornate vegetavano tra casa, scuola e giochi nel cortile di Deborah, la sarta sciancata.

Ancora oggi che ho quasi trent’anni, e ho scritto, anonimo, il “Trattato politico-teologico”, non so capacitarmi della crudeltà di avermi fatto assistere alla punizione di Uriel, reo di pensare in maniera diversa dal canone religioso che incombe immobile come una torre. Precisamente quarantadue giorni dopo la flagellazione, Uriel si dette la morte gettandosi nelle acque del Sigel, ammantato da umiliazione, derisione e piaghe che lo avevano costretto adormire briciole di sonno bocconi sul giaciglio che pareva la cuccia di un cane, chiuso nella stanzetta affittatagli per compassione da Chaim il cestaio.

Anche io, Baruch – Benedetto per i gentili – da due anni sono fuori dalla comunità, espulso per indegnità di pensiero, insomma in odore di eresia. Vivo in due camere piccole e decenti e mi guadagno da mangiare molando da mane a sera lenti per occhiali. In una delle stanze cucino, dormo, mi lavo, studio e scrivo sullo scrittoio cosparso di penne e calamai, nell’altra esterna che affaccia sull’angusta strada dei Bigongiari ho bottega.
Sto cominciando a scrivere, in latino come si conviene, in questo anno 1661, dei pensieri di metodo sull’etica laica, in cui l’uomo è visto come un essere naturale, incluso nell’ambito della produttività infinita della natura; a dire il vero ho stilato al momento questa sola definizione, su Dio: per causa di sé intendo ciò la cui essenza implica l’esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere concepita se non come esistente. Ho il presentimento – e non mi fa né caldo né freddo – che non varcherò i cinquanta anni.»

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