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29 Gennaio. Festa di San Costanzo pronubo ed esigente. Occhiolino e marito, solo se… illibate. Tradizioni perugine e riflessioni storico-antropologiche

29 Gennaio. Festa di San Costanzo (Gostanzo, con la G, per noi perugini) pronubo ed esigente. La battuta proverbiale, a mo’ d’invocazione, recitava: “San Gostanzo da l’occhio adorno / famme l’occhiolino sennò n ci artorno!”.

Ma, attenzione! Occhiolino e marito, solo se… illibate. Tradizioni perugine e riflessioni antropologiche sull’occhiolino del Santo decollato.

Com’è noto, le ragazze “da marito”, il giorno della festa, si recavano nella chiesa del santo e ne fissavano intensamente l’icona, nella speranza di riceverne l’occhiolino che avrebbe sancito lo sposalizio entro l’anno.

Ma il fatto è che, per ricevere quel complice assenso, occorreva l’assoluta illibatezza. Mentre pare – ed è indice di buon vivere – che i giovani perugini amassero, fin da tempi andati, delibare in anticipo la “merce” che si accingevano ad acquisire. Riservatamente, s’intende. Senza farlo sapere a babbo e mamma. Ma svelandolo in confidenza agli amici più fidati: per vanteria e maschilismo.

In alcuni casi, dunque, il santo non annuiva. E allora la ragazza, piccata, buttava lì la battuta: “San Gostanzo, amò te l dico / quand’artorni ho preso marito”. Ossia, il prossimo 29 gennaio sarò andata sposa comunque, indipendentemente dalla mancata manifestazione della tua volontà.

La ragazza, esposta alle critiche della comunità, per la sua probabile – anzi quasi certa – “non illibatezza”, sfidando il santo, gli lanciava lo slogan sopracitato.

Mi piace riportare in pagina l’interpretazione del grafico amico Marco Vergoni che illustrò il mio “… e lascia sta i santi!”, breviario laico edito da Aguaplano.

Ma, anche in assenza di occhiolino, c’era sempre modo di rimediare. E di garantire che l’impegno matrimoniale restava. Dunque il giovane, responsabile del fallito imeneo (per aver anticipato la “festa”), s’impegnava pubblicamente al matrimonio infilando al braccio dell’amata il torcolino all’anice, pinoli, uvetta e canditi. Qualcosa di simile accadeva alla festa dell’Immacolata di Monteluce (15 agosto) col torcolino all’anice e la piantina di basilico “gentile” (dal profumo intenso e non da consumare).

A proposito di ‘tòrqlo’ (di cui evitiamo di riportare l’arcinota ricetta) ricordiamo che l’espressione figurata “Che tòrqlo!” (pronunciata con disprezzo all’avversario) indica una sfacciata fortuna alle carte e al gioco in generale. Oppure (pronunciata con ammirazione) è segno di un pesante apprezzamento per un rispettabile “lato B” di donna (o di uomo?).

Nella cabala, e nella tombola perugina, l’espressione equivale allo scaramantico numero 23. Tanto che quel buco centrale del torcolo – che, come sezione, allude alla decapitazione del vescovo santo – finisce con l’assumere altri e più volgari riferimenti. Ma si sa che la parola “volgarità” deriva da VULGUS, che è il termine con cui si indicava la gente comune. Nella cui schiera ci onoriamo di figurare.

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