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Venerdì, 19 Aprile 2024
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RIPIANI. Sugli scaffali un libro nuovo che sa d’antico

Il libro è quello di Francesco Curto, dal titolo “Versi sfusi” (Morlacchi editore), prefazionato dall’Inviato Cittadino

Sugli scaffali un libro nuovo che sa d’antico, quello di Francesco Curto, dal titolo “Versi sfusi” (Morlacchi editore), prefazionato dall’Inviato Cittadino. Il testo poetico è impreziosito da una copertina (“Ritorno”), da una quarta (“Coltivasogni - Aria”), e da un ritratto in bandella, usciti dalla factory della pittrice Serena Cavallini.

L’aggettivo “sfuso” fa pensare a un piccolo produttore che non imbottiglia, ma cede ai clienti affezionati del buon vino a prezzi modici. O perfino lo regala. Questo, non altro, è la poesia. Un prodotto di lusso che si dà per niente a chi abbia orecchie per ascoltare, mente per comprendere, cuore per recepire, anima per condividere.

Curto afferma che si tratta di poesie “avanzate”, scartate, “abortite”, come usa dire: “Io partorisco spesso / e gli aborti non li conto”. Può anche essere, ma la circostanza è irrilevante. Anzi, personalmente credo che questa affermazione costituisca una licenza poetica o una mezza bugia. Perché non esiste poesia di scarto.

Quali i temi di questa raccolta che viene alla luce dopo la celebrazione del cinquantesimo compleanno di pubblicazioni?

Uno dei pensieri ricorrenti è il “sensus finis”, a far capo dalla prima lirica in cui Curto parla di mancanza di coraggio di “oltre quella siepe gettare lo sguardo”, persuaso che forse sia giunto il tempo di “tirare le somme”.

Curto esprime una visione quasi leopardiana in cui perfino “il pino laricio / piange con lacrime di resina”. Un pessimismo che si mostra evidente nel nome “dio” costantemente scritto con la minuscola.

A proposito di religione e religiosità (persa), Curto dichiara: “Sono un religioso senza dio / un fratello di Cristo e dell’umanità. Ho smarrito il mio cuore nella nebbia / non ha un barlume la mia anima / per trovare una via d’uscita”.

Ciò che resta del suo bagaglio poetico e ideologico è una persuasa coscienza ecologista che caratterizza già le prime raccolte, prendendosela con “I potenti che abusano della Terra avvelenando i fiumi”.

Ma è anche la quotidianità a riempire la pagina di Curto, come quando la circostanza del lockdown lo fa pensare al destino che attende il nipotino Lorenzo. Il poeta vorrebbe vederlo “bambino un po’ più grande / da ricordarmi preoccupato e stanco / ma per te sempre quel nonno folle e un po’ bislacco”.

È forse il momento di tracciare un bilancio esistenziale? Ciò che è fatto è fatto, compresi gli errori. Poiché si sa che “Riavvolgere la vita / è un film impossibile”.

Unica via di fuga, non dico di salvezza, è la cultura, tanto da far esclamare al poeta: “Voglio morire affogato / dentro un mare di libri… / voglio spegnere il giorno / e dentro agli occhi / portarmi via la luna”.

Il “sensus finis”, la “vanitas vanitatum” si avverte nell’enunciato “Corrono veloci questi ultimi anni / dentro giorni vuoti e pregni di paura / ridotti come bestie in un recinto / dentro una bufera che agita i sogni. / Invisibile la morte ci tiene compagnia”.

Pare di sentire il verso quasimodiano, quando Curto esclama: “Ognuno solo al mondo come un cane / alla sera non resta che la resa dei conti”.

Siamo pronti all’ultimo viaggio? “Sono vissuto ed ora sono pronto / l’ultimo viaggio è il più leggero”.

Un capitolo a sé è costituito dai versi in dialetto calabro (il poeta è nato ad Acri, Cosenza), in cui tornano i temi erotici e quelli identitari, intrisi di nostalgia per il paesaggio della terra natale e per una condizione di povertà dignitosamente vissuta.

Insomma: una raccolta composita e varia. Altro che ritagli e frattaglie!

Cosa aggiunge, dunque, questo libro a quanto già detto dal poeta nelle numerose precedenti raccolte? Dimostra, a mio avviso, come il poetare sia di per sé un’esigenza incomprimibile. Per chi è poeta.

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