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INVIATO CITTADINO Copia d’autore per lo Sposalizio della Vergine

Esce dal pennello di Umberto Palumbo, magister iuris et pictor optimus

Copia d’autore dello “Sposalizio della Vergine” (dopo l’“Adorazione dei Magi”) del Perugino.

Opere che escono, rigenerate, dal pennello di Umberto Palumbo, magister iuris, fiorentino di nascita, perugino di persuasa adozione.

È qualità risaputa la valentia pittorica del celebre avvocato. Che, in occasione della ricorrenza peruginesca, si è cimentato in una copia delle due note opere.

Esperienza accompagnata dalla pubblicazione di una snella plaquette dal titolo “Il perché di una copia”, per Morlacchi editore (limited edition in 100 copie, firmate e numerate). Di cui l’autore ha fatto grazioso omaggio all’Inviato cittadino.

La “confessione” di Palumbo è assecondata da una nota colta, affettuosa e complice di Francesco Federico Mancini che propone storia, vicende e riflessioni sullo “Sposalizio della Vergine”.

Non senza esprimere compiacimento e apprezzamento per l’amico artista, pervaso da “inesauribile fervore creativo”, definendolo “virtuoso del pennello” e capace di “entrare nelle pieghe più riposte dell’arte”.

Ma veniamo al “perché” sono state realizzate le due copie. Scrive il principe del Foro (e del pennello): “Perché lo so fare e per misurarmi con me stesso”.

Aggiungendo che oggi la maggioranza di quanti si autodefiniscono “artisti” non sa fare altrettanto ed è priva dei fondamentali.

Poi una tirata, alla sua maniera, citando il degrado della cosiddetta arte contemporanea in riferimento all’Orinatoio di Marcel Duchamp e alla “Merda d’artista” di Pietro Manzoni.

Quanto al “misurarsi con se stesso”, la riflessione verte sul fatto che siamo indotti a “cercare il limite delle proprie capacità”, in vista di un continuo/agognato miglioramento, desiderando/accettando/proponendosi sfide.

Poi esempi illustri di imitazioni di rango: Rubens che ha copiato Tiziano, Delacroix col Mantegna, Raffaello col Perugino (anche se parlare di “copiatura” pare eccessivo).

Senza trascurare la diatriba sul fatto che la Gioconda esposta al Prado sia l’originale leonardesco. In barba a quella esposta al Louvre.

Lo stesso Caravaggio – ricorda Umberto – ebbe a realizzare più copie del suo “Giocatori di carte”. E non fu lo stesso De Chirico ad affermare di aver realizzato dei “falsi” delle proprie opere?

Chiacchiere a parte, oltre al copiare se stessi (che è meglio definire “replicare”), non si dimentichi che nel Medio Evo copiare era ritenuto un modo legittimo di diffondere l’arte.

E non pare fuori luogo citare il verso dantesco “Credette Cimabue nella pittura tener lo campo / ed ora ha Giotto il grido, sì che la fama di colui è scura”. Non per dire che l’opera di Palumbo supera il Divin Pittore. Ma che, si parva licet, anche un ludus  colto può rivelare un prezioso talento.

Concludendo, con le parole di Umberto: “Perché ho copiato? Per godere dello chic e dello charme di quei capolavori”. E non mi pare godimento/cimento da poco.

PS. Non sfugge all’osservatore attento un vezzo di Palumbo: quello di vergare il proprio nome e l’anno della copia sull’architrave del tempio. Anche questa un’idea “rubata” a Raffaello. Ma proposta come forma di intelligente e arguta provocazione.

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