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CORREVA L'ANNO di Marco Saioni | 1904-I barbieri di Perugia, in lotta contro i padroni, proclamano lo sciopero ma la vertenza finisce male


Farsi radere nella barbieria Chiavini di Corso Vannucci. Un lusso e un piacere della vita. Solo qui usano il riguardo esclusivo di una soffice schiuma, sapone extrafino da toeletta e antisettico a prevenire infezioni da taglio accidentale. E poi mica i soliti mobili triviali, macché, qui trionfano la noce intagliata, poltrone affettuose nell’abbraccio, fasti di luce e colore nel riverbero di specchi. Offrire la gola al rasoio, reclinati su un trono da re è delizia per gli occhi, avidi a sorseggiare volta e pareti dipinte. Le immagini del Brugnoli scivolano lente e persuadono al sogno, calati in un tempietto di profumi. E’ qui che dopo il bagno, Venere potrebbe manifestarsi per abbigliarsi e cospargersi di essenze.

Vero è che il titolare soffre di una forma accentuata di grafomania e non si lascia mai sfuggire l’occasione. Difronte al cliente caporedattore è solito proporre “un articoletto” mentre gli arriccia il baffo. Vedremo, se c’è spazio, ma talvolta si cede, specialmente quando la richiesta coincide con le evoluzioni del rasoio intorno al collo. L’idilliaca e ironica rappresentazione del cronista, cullato dalle premure concesse a una clientela altolocata, non trova riscontro nella maggior parte delle numerose botteghe artigiane dove forbici, pettini e rasoi fanno il loro mestiere tra quattro chiacchiere e pareti di modesta tintura.

Oltre ai proprietari dei negozi, operano i lavoranti, di nome e di fatto, e gli apprendisti, ragazzi di bottega lesti di spazzola, che con le mance svoltano la giornata meglio dei colleghi. Una micro azienda, la barbieria, dove i lavoranti, costretti a pagarsi gli strumenti del mestiere, ricevono una paga miserevole. Meglio poi evitare di guardare l’orologio che di straordinario neanche a parlare. Da tale condizione nasce la lega dei lavoranti barbieri, in seno alla Camera del Lavoro. E’ in tale ambiente che il conflitto tra pelo e capitale assume i contorni di una rivendicazione, dapprima affidata a un comunicato a pagamento per attrarre solidarietà dalla collettività. 

Si parla del crescente costo della vita da affrontare con paghe meschine, aggravate dalla spietata concorrenza che i padroni di bottega si fanno fra loro a colpi di abbonamenti scontati per i clienti. Richieste modeste, di qualche centesimo e scampoli di tempo per stare più in famiglia. Attesa inutile poiché la controparte non concede risposte di alcun genere. Allora fu serrata di forbici e rasoi. L’assemblea approvò, dopo ampio dibattito, la proclamazione dello sciopero, fino al conseguimento dell’obiettivo, quello di intavolare una trattativa. Per tutta risposta i padroni iniziano a minacciare il licenziamento, da cui la decisione di recarsi nelle botteghe a ritirare i ferri e resistere a oltranza. La strategia messa a punto dall’organizzazione prevedeva l’allestimento di due sale da toeletta provvisorie, una presso la Camera del lavoro, l’altra in via Mazzini, presso la Borsa. 

Simpatizzanti dello sciopero accorsero poiché l’idea di farla in barba ai padroni trovava credito. Si raccolse qualche solidale sostegno economico da sottoscrizioni, tale da garantire ossigeno a quella ventina di scioperanti. Non una massa da sfondamento, seppure fortemente rappresentativa delle botteghe cittadine. Persino due redattori del giornale governativo varcarono la soglia aborrita, noto covo di socialisti. Fiaccare la resistenza padronale era ormai più che una speranza, anche perché l’ipotesi di un salone cooperativo da allestire nel caso di mancata risoluzione della vertenza avrebbe in ogni caso sostenuto la lotta. E poi l’esito dello sciopero dei fiammiferai, chiuso felicemente qualche settimana prima, autorizzava ottimismo, anche se i barbieri, più adusi all’acqua e schiuma, di carica incendiaria difettavano un po’. Era ormai fatta, i padroni si sarebbero riuniti per trattare su qualche concessione, ma successe.

Alcuni lavoranti cedettero a qualche lusinga e di nascosto, contro il volere dell’assemblea, ripresero il lavoro nelle botteghe, anche in sostituzione dei colleghi. Una carognata ma come scrive il sommo poeta “Più dell’onor potè il digiuno” L’azione di crumiraggio provocò un disastroso effetto domino, bene descritto dalla scarna nota che i “capi d’arte” recapitarono alla lega, informando con affilata cortesia di barracuda che “i lavoranti avevano ripreso servizio alle condizioni solite, ossia rinunciando a tutto quanto avevano domandato”. Chiusa con sincera stima e firma. Sull’esito della vertenza sguazza l’Unione Liberale, pronta a denigrare “lo sciopero ingiusto e inconsulto” da cui non si ottiene altro che un danno materiale agli stessi lavoratori. E poi non è cosa buona nei confronti di coloro che ti danno il lavoro. Se ci sono diritti e richieste, molto meglio chiedere a loro, sarete certamente più ascoltati. Un buon viatico per le future procedure negoziali delle contrattazioni.
 

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