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INVIATO CITTADINO Stefano de Majo racconta Canova, tra spettacolo alto e teaching session

Una performance attoriale-autoriale di assoluta originalità e capacità di seduzione

Stefano de Majo racconta Canova, tra spettacolo alto e teaching session. Una performance attoriale e autoriale di assoluta originalità. Cui è toccato il compito di chiudere degnamente un grande anniversario. Celebrato congiuntamente da Comune di Perugia, Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” e Fondazione Perugia.

Dopo un’acconcia accoglienza dell’assessore Bertinelli (che ha dimostrato aver dimestichezza non solo coi numeri, ma anche con l’arte della presentazione) De Majo ci ha fatto rivivere gli esordi e l’apprendistato dello scultore, alla inesausta ricerca di materiali e procedimenti che potessero garantire una resa della materia come vera carne. Passando poi per gli incontri e le commissioni, le opere ripetute e fatte rivivere in tableaux vivants (non pittorici, ma scultorei) il cui approccio e la cui resa si sposa alla perfezione con le forme d’arte del palcoscenico.  

FOTO - Stefano De Majo racconta Canova, tra spettacolo alto e teaching session


(foto Sandro Allegrini)

E poi il dialogo-scontro con l’amico e rivale Bertel Thorvaldsen, con il quale, tra Settecento e Ottocento, Canova consegue la palma di efficace tutore della visione classica dell’arte, piegata ad esprimere pulsioni e stilemi scultorei di straordinaria contemporaneità. Resta il fascino del mito, in uno storytelling virtuoso, capace di calare la perfezione della forma nell’imperfezione del reale. Che ne risulta però idealizzato eppure straordinariamente realistico.

Corpi e carne resi in pose scultoree da Simone Martinelli, con la complicità della fotomodella Chiara Cavalieri e della flautista Emanuela Boccacani. Un trio che si rivela in grado di impersonare senza snaturare. Perché, in questi casi, è sempre in agguato il ridicolo da pantomima. Insidia che la compagine ha brillantemente evitato con ammirevole sobrietà. Guidata con mano sicura da uno smaliziato volpone da palcoscenico come De Majo.

Complemento indispensabile la videoart di Paul Harden a proporre sottolineature e composizioni atte a rappresentare un mondo onirico e reale, capace di calare il mito nell’epifenomeno umano, umanissimo, e di innalzare l’uomo alla contemplazione del bello paradigmatico, fin quasi all’astrazione, “metà ta fisikà”. A un mondo del “dover essere” più che a quello dell’“essere”.

L’operazione compiuta da Stefano de Majo come autore è frutto di una cultura e di una ricerca meditate e profonde: dalle tecniche ai personaggi, dalla conoscenza delle opere fino alla loro genesi.

Toccante il discorso di Pericle agli Ateniesi, in cui si declina di che conio fossero fatti uomini impastati e impostati al senso di responsabilità collettiva. Un pezzo di tragedia e di storia tucididea, un orgoglio legittimo di chi ha inventato la democrazia. Sebbene in forme assai lontane dalla nostra.

Ed è stato commovente, in chiusura, vedere De Majo-Canova aggirarsi fra i vicoli della Vetusta. Con la lanterna di Diogene a cercare l’uomo. Mosso da un’incontenibile pulsione euristica. Forse un’indagine intorno all’intima ragione del nostro esistere. Fino a condurci San Francesco al Prato dove le Grazie e i pannelli ci raccontano un uomo abitato da un lucido delirio, nella ricerca d’assoluto. Guidarci fino alla gipsoteca. Dove le Tre Grazie di Canova battono clamorosamente il Pastorello del Thorvaldsen. Grande anche lui, ma superabile. E superato.

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