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Correva l'anno di Marco Saioni | 1905 - Il ragazzo, le sue amanti, l’avvocato. Il fattaccio che appassionò l’Italia

Il processo durò tre anni e i perugini si appassionarono da portarsi merende ai dibattimenti per non perdere qualche particolare frizzante

Folla ai giardinetti, a Porta Sole, gremiti i terrazzi, finanche i tetti. Tutti a scrutare il cielo che annunciava spettacolo d’eclisse. Taluni un po’ farseschi, i nasi anneriti dal vetro affumicato, mentre stupefatti, ascoltavano il canto dei galli, raggirati da un’alba bugiarda. Alle 13,30 il paesaggio si era fatto plumbeo per difetto di colori.

Dalla finestra del suo palazzo, affacciata sul Morlacchi, preferì evitarli i bagliori di quel sole che svaniva. Ci teneva agli occhi, l’anziano avvocato Alessandro Bianchi, decano del foro perugino e illustre penalista di fama nazionale. Teneva anche alla forma, una salute di ferro, la sua, ritemprata da quotidiani bagni freddi e passeggiate a cavallo. Non ebbe tempo per i vetri affumicati. Aveva appena fatto assolvere il tenente Modugno dall’accusa di uxoricidio, da tutti considerato colpevole.  Un’arringa brillante, l’ultima della sua carriera. Un caso celebre d’avvincere tutta la stampa nazionale.
C’era poi quell’incontro urgente, certamente sgradevole, cui però non poteva sottrarsi. Una storia di cambiali e firme falsificate che Guido Casale, il giovane viveur squattrinato aveva imbastito malamente.

Risiedeva a Perugia da un anno e già tutti lo conoscevano, quel piemontese meno che trentenne, di bell’aspetto, vestito alla moda, frequentatore assiduo dei locali più in vista. Una vita apparecchiata da belle donne, svaghi di lusso, la motocicletta. A Perugia era capitato per studiare da farmacista dopo aver bruciato la pur consistente eredità paterna. Poco incline verso la chimica degli elementi, preferì indagare quella generata dal fruscio di sottane. 

Dicono fosse l’intercessione di un alto prelato a introdurlo presso l’avvocato, dove alloggiava da inquilino.
A Palazzo Bianchi, insieme al proprietario, viveva la sua giovane nipote, cui faceva da istitutrice la conturbante Guglielmina Rinaldi da Casacastalda, già inserita nel testamento, beneficiaria di un consistente lascito.

Nonostante le tresche già in atto con la “Carbonarella”, procacissima puledra suburbana, e una subrette del Turreno, il rampante sabaudo non ebbe difficoltà a intrigare l’istitutrice ereditiera. L’avvocato abbozzò, ma non la prese bene, non tanto, forse, da lasciare inalterata la disposizione testamentaria. E sì, perché i rapporti tra l’anziano e la giovane Guglielmina erano chiacchierati parecchio. Figlia o amante che fosse, per taluni ambedue le cose, non doveva aver digerito quel traffico tra le lenzuola in casa sua.

Fu proprio dal Caffè Vannucci, dove il giovane era solito sfarfallare tra i tavoli, a strappare l’appuntamento, aggrappato alla cornetta del telefono, giusto a ridosso dell’annunciato fenomeno. Quelle cambiali stavano diventando un problema ma l’avvocato era ricchissimo e un favore lo poteva fare. Cosa erano in fondo quelle venticinquemila lire? Si che avrebbe capito e i problemi si sarebbero dissolti nel breve tempo di un’eclisse. Una bevuta insieme e poi tutti due in sella per le consuete passeggiate a cavallo. Questo immaginava il Casale, anche se per ogni evenienza si era infilato in tasca un serramanico da trenta centimetri.

Sicuramente le argomentazioni del giovane dovettero scarseggiare di costrutto, non quanto sarebbe servito a convincere l’avvocato circa l’opportunità di riconoscere come proprie quelle cambiali fasulle. Il colloquio che seguì fu veloce come un amen con stizzita girata di spalle. Che facesse il piacere di togliersi dai coglioni, quella la porta.

Un fulmineo, violento strattone, la testa che flette all’indietro poi la lotta disperata. Le mani del giovane a serrare la bocca dell’anziano, il grido domato. La pressione irruente sganciò la dentiera inferiore che s’incastrò di traverso. Ebbe tempo, l’avvocato, di percepire la fitta, persino l’atroce fiotto del sangue, che pompato dall’adrenalina, iniziava a tinteggiare d’orrore. Pochi istanti per guardare ancora la luce che sfumava dai vetri. La lama squarciò la gola recidendo tutto ciò che di molle incontrava. L’argine delle vertebre del collo ne placò l’impeto. L’assassino lo lasciò cadere guardandolo calciare, gli occhi all’indietro, mentre sembrava annegare, gorgogliando, in quella laguna di sangue scuro come un capretto scannato.

L’ipotesi del suicidio dovette sembrargli plausibile. Imbastì dunque lo scenario con un rasoio e le copie di due giornali, quelli che se l’erano presa con l’impostazione della difesa, avendo definito “vecchio rimbambito” il grande avvocato. Non si sopravvive a due articoli al vetriolo come quelli. Nella sua mente dovette sembrare ragionevole che un professionista di fama nazionale, a fine carriera, si decapitasse da solo con un rasoio da barba dopo aver consultato la rassegna stampa.

Non funzionò, anche perché lasciò in giro più tracce di un orso sulla neve fresca. Disfarsi degli abiti insanguinati e del coltello fu poi un colpo da maestro. Al cesso che li inghiottì restarono così indigesti da intasare tutto il palazzo, fino all’intervento del muratore che li recuperò.
Tra le varie ritrattazioni ammise che sì, il sangue che aveva addosso era dovuto a puro gesto pietoso. In buona sostanza un atto d’amore per finire il penalista, suicida e agonizzante, trovato lì per caso.

Il processo durò tre anni e i perugini si appassionarono da portarsi merende ai dibattimenti per non perdere qualche particolare frizzante. Del resto gli ingredienti c’erano tutti, il fruscio di sottane calanti, pure. Ci fu anche chi, profittando della calca, intese saggiare con mano le generose fattezze della giovane Adalgisa, di strafottente avvenenza. Non sembrò gradire, visto che reagì con sonore “cinquine”. Il trambusto non sfuggì ai gendarmi che fendendo la folla, assicurarono alla giustizia il quarantenne in overdose da testosterone. Sette mesi senza condizionale a meditare sulle insidie della carne. Altro che norme sulle molestie sessuali.

Finì come doveva per il Casale, seppure non secondo le previsioni. Gli avvocati, a furia di colpi bassi, si adombrò persino un penoso tentativo di approccio sessuale da parte della vittima, gli evitarono l’ergastolo. A nulla valse, tuttavia, il ricorso in Cassazione. Stavolta l’eclisse che avrebbe oscurato la sua vita sarebbe durata trent’anni.

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